La versione di IvanGli anni del populismo e della riscossa draghiana della politica e del paese

Il senatore Ivan Scalfarotto di Azione-Italia Viva racconta in un libro edito dalla Nave di Teseo la politica degli ultimi anni, con retroscena inediti e aneddoti sui disastri dei governi Conte

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…questa storia comincia molto prima, comincia il 25 marzo del 2020: segniamoci questa data. A Milano eravamo chiusi in casa da 17 giorni. Le cose con il Coronavirus avevano cominciato a mettersi malissimo più o meno a metà febbraio. Nel lodigiano erano già stati tutti segregati in casa. Il mio partito, Italia Viva, in Lombardia aveva all’epoca una consigliera regionale che era di Codogno e che era stata anche lei intrappolata nel lockdown. Le avevo più volte parlato al telefono in quei giorni, era fuori di sé, disperata. Eppure io stesso, come più o meno tutti, pensavo – è letteralmente incredibile ricordarlo adesso – che la cosa non mi riguardasse, nemmeno lontanamente. Ero talmente tranquillo che il 20 e 21 febbraio ero andato in missione – prima a Parigi, poi a Berlino – per incontrare i miei omologhi nei due governi dei principali paesi dell’Unione. Che le cose stessero precipitando fui costretto a registrarlo dai fatti: sabato 22, quando gli organizzatori del MIDO – la sfolgorante, magnifica fiera degli occhiali e dell’ottica che si tiene a Milano, la più bella e importante del settore in tutto il mondo – annunciarono che la manifestazione, che doveva cominciare il sabato successivo, non si sarebbe tenuta e sarebbe stata posticipata. Se si bloccava il MIDO a una settimana dall’inaugurazione significava che era pensabile rimettere in discussione e potenzialmente annullare – come poi puntualmente accadrà – tutte le fiere dell’anno, uno sfacelo.

Nonostante ciò, e devo ammettere che non ero già più così sicuro che fosse la cosa giusta, il lunedì 24 ero partito con il mio caposegreteria, Christian Lungarotti, per un’altra missione, eravamo andati addirittura in Russia. Era prevalso il senso del dovere, il non voler cedere all’allarmismo, evitare di dire al governo ospite che cancellavamo una missione poche ore prima della partenza: una decisione del genere equivaleva ad ammettere che in Italia avevamo un problema grande come una casa. Partenza dunque da Fiumicino con volo Aeroflot completamente pieno, ritorno da Sheremetyevo con volo Aeroflot assolutamente vuoto. Nonostante le mie cautele, il paio di giorni che avevamo passato a Mosca erano stati più che sufficienti perché in tutta Europa tutti sapessero perfettamente che il focolaio del virus era in Lombardia, in Italia. Gli italiani malati erano tanti, i casi aumentavano geometricamente di giorno in giorno, e i malati all’estero erano quasi sempre persone che avevano avuto a che fare con l’Italia: o erano tornati a casa da un viaggio da noi o avevano incontrato degli italiani. Sensazione bruttissima: il problema erano gli italiani e il problema era degli italiani. Essere guardati con sospetto in ragione della propria nazionalità. Ad altri capita di frequente. Noi, non ci siamo abituati.

Già sul volo per Mosca, Christian aveva sfoderato una mascherina chirurgica. Guardandomi indietro, quella è stata la prima volta che ho avuto a che fare concretamente con il concetto stesso di mascherina. Fino ad allora mi era sembrata soltanto una stranezza da turista asiatico, un gesto di cortesia estrema dall’estremo oriente: noi, duri europei, se abbiamo il raffreddore non mettiamo la mascherina. Noi, il raffreddore ce lo passiamo. Niente cineserie, insomma, tanto prima o poi capita a tutti. E invece.
“Ma tu la mascherina non la metti?”
“No, Christian, non credo che sopporterei di avere in faccia una cosa che mi impedisce di respirare. Ero pessimo pure a giocare ai fantasmi coi cugini da bambino, dopo un po’ avevo bisogno d’aria.”
“Capisco, ma se non ti dispiace io la metterò. Ho i bambini a casa…”
“Ma certo, figuriamoci. Tu fai come vuoi, io non penso proprio di farcela.”
Comunque, altro che cineserie, in pochi giorni ci ritrovammo tutti chiusi in casa. Le cose avevano preso una piega veramente impensabile. La sera di sabato 7 si era diffusa la voce che il lockdown del lodigiano sarebbe stato esteso dal governo a tutta la Lombardia e alla Stazione centrale c’era stata una vera e propria fuga di massa, l’assalto ai treni per il sud: umani e virus si attrezzavano così per distribuirsi in modo equanime nell’intero paese. Anche nei ministeri l’istruzione era stata quella di rimanere a casa il più possibile. Io ero a Milano, i viaggi dalla Lombardia erano specialmente scoraggiati, decisi dunque di provare a capire se e quanto potevo lavorare da casa. Le missioni all’estero erano escluse, la maggior parte del lavoro stava in quei giorni nel cercare di riportare a casa le masse di italiani che, per qualche motivo, erano all’estero all’esplosione della pandemia e che dovevano tornare in Italia. (……)

Il nostro governo, intanto, reagiva chiudendo tutto quello che poteva e cominciando a stanziare un po’ di soldi – il ministro dell’Economia Gualtieri andò il 15 marzo in televisione da Fazio a dire che avremmo subito stanziato 25 miliardi che avrebbero a suo dire creato “un effetto leva che avrebbe movimentato fino a 350 miliardi” – e, soprattutto, nominando con la massima urgenza (l’11 marzo) Domenico Arcuri commissario straordinario per l’emergenza. Il 21 del mese Conte annunciò un’altra stretta, chiudendo anche le fabbriche. Si cominciava a vedere in azione quella che sarebbe stata la strategia del governo: non solo puntare alla riduzione massima del rischio, contemperando le esigenze di sopravvivenza economica del paese con il più efficace contenimento del virus, ma azzerarlo completamente. Chiudere tutto, subito, tranne le cose da cui dipendeva la vita o la morte delle persone. Il resto dell’economia poteva e doveva essere sacrificato, apparentemente ad libitum, senza che si pensasse a un termine o si ragionasse su una via di uscita.

A questa linea, rispetto alla quale noi di Italia Viva fummo sempre molto insofferenti, si aggiunse una novità che molti sottovalutarono, e che aveva a che fare con il modo di rapportarsi del presidente del Consiglio al parlamento e al paese. Il primo fu sostanzialmente neutralizzato: all’inizio i gruppi parlamentari si accordarono informalmente per farsi rappresentare da una frazione dei propri eletti. Una soluzione sul piano costituzionale assai discutibile, posto che in parlamento non esiste il voto per delega né esiste il vincolo di mandato. Dire che il 55% dei parlamentari avrebbe rappresentato anche il 45% mancante, significava violare entrambi i principi costituzionali. Conte, poi, alla Camera e in Senato non si vide praticamente mai – anche se il suo M5S vorrà poi trasformarsi, nei confronti con il governo che seguirà, come il partito del “rispetto del parlamento” – e la maggior parte delle sue decisioni furono assunte tramite decreti del presidente del Consiglio, i famigerati DPCM, sui quali le Camere non esercitavano alcun controllo sostanziale.

Con il paese, fu ancora peggio. Il presidente del Consiglio si rivolgeva agli italiani, angosciati dalla situazione nella quale erano precipitati, attraverso dirette Facebook sulla propria pagina pubblica poi rilanciate urbi et orbi dalle televisioni generaliste. La prima diretta Facebook dalla pagina personale del premier, annunciata da un’edizione straordinaria del Tg1 verso le 22.30 del 21 marzo, andò invece in onda alle 23.24, costringendo i giornalisti del Tg1 a disperate acrobazie nel tentativo di riempire il vuoto. Nell’ora e passa di ritardo, Giuseppe Conte aumentò i suoi followers su Facebook di ben 350.000 unità: era la formula Casalino.

Questo modo disinvolto di gestire il potere in un momento in cui le garanzie costituzionali erano di fatto sospese mi portò a ragionare frequentemente, e con angoscia crescente, sul rischio che il bisogno di sicurezza percepito in quei giorni senza precedenti si tramutasse in una disponibilità a lasciare allo Stato, in cambio di protezione, ampi margini di riduzione delle libertà individuali. Le parole di ammirazione che si sentivano pronunciare da più parti, persino da componenti del governo, per il modo in cui regimi non democratici avevano gestito la pandemia faceva veramente impressione.

Mi sorprendevo – io, deputato della Repubblica: uno che normalmente non può essere intercettato, perquisito o arrestato, se non in flagranza di reato – a riempire un foglietto nel quale diligentemente e come se fosse la cosa più normale del mondo scrivevo chi ero, perché ero uscito di casa e perché volevo salire su un treno: “Sto andando a Roma per votare la fiducia al governo di cui faccio parte”. Nella Stazione Centrale di Milano deserta – mentre un poliziotto chiamava un dentista a Salerno per verificare se davvero la donna davanti a me stava andando in Campania per una visita odontoiatrica e un altro telefonava a qualcuno a Milano per verificare se davvero quel ragazzo che voleva prendere il treno non poteva proprio più restare ospite da loro – un uomo in divisa leggeva la mia autodichiarazione, mi squadrava e poi mi lasciava passare. Orwell, diciamo.

Davanti alla pandemia, fenomeno ignoto – sospesa la vita, sospesa l’economia, sospesa la scuola, sospesi i rapporti sociali, sospesi i normali diritti democratici – le decisioni del governo erano prese all’impronta e in modo reattivo. Si reagiva come si poteva alla situazione, ma Conte e il governo non riuscivano a declinare una strategia per riportare il paese in una situazione di una qualche normalità, non riuscivano a descrivere come l’Italia avrebbe potuto convivere con il Covid in attesa del vaccino. In parte era comprensibile, nessuno aveva mai dovuto affrontare un evento epidemiologico di quelle proporzioni, in parte era però l’inadeguatezza della leadership che portava il governo a prendere decisioni che al massimo servivano a limitare i danni e che mai lasciavano vedere in controluce una via praticabile verso il ritorno alla vita precedente. A sollevare il problema che non si dovesse certo morire di Covid, ma che per far questo non ci si trovasse poi a morire di fame, c’eravamo solo noi: Renzi sulla stampa, Bellanova e Bonetti in Consiglio dei ministri, e ciò che è triste da dire – almeno per me e per la mia storia – è che se c’era una sponda verso un’idea, un sentimento, di ritorno alla normalità, quella sponda ci veniva offerta solo e rigorosamente da destra.

Cominciavamo a farci la fama dei rompiscatole, volevamo invece soltanto che qualcuno si rendesse conto che l’Italia era ferma e che bisognava cominciare a pensare al fatto che saremmo stati presto in una terra di mezzo, quella nella quale in qualche modo siamo ancora: dovevamo mostrare al paese come sarebbe stata l’Italia che stava tra la fine dei lockdown e la sconfitta del virus. Dicevamo già da allora che per poter sopravvivere nella terra di mezzo, nell’attesa che il virus fosse debellato, bisognava attrezzarsi con nuove idee, avere una visione, non limitarsi a coprirsi la testa.

Se avesse potuto – e questo era l’indice dello smarrimento che teneva in scacco Palazzo Chigi – il governo avrebbe probabilmente passato la responsabilità delle decisioni sul futuro del paese ai medici, agli scienziati: espresse bene questo stato d’animo Francesco Boccia, che era il ministro per il Mezzogiorno, quando chiese alla scienza di dare al governo delle “certezze inconfutabili”. A rispondergli a modo suo ci pensò il Professor Burioni: chiese al ministro Boccia se oltre alle certezze inconfutabili non volesse per caso da lui pure dei numeri da giocarsi al lotto. La politica aveva alzato bandiera bianca, annaspava tra banchi a rotelle e mascherine che mancavano, tra le scuole ermeticamente chiuse e i ventilatori malfunzionanti, e nel frattempo avevamo i russi che scorrazzavano per l’Italia mentre il ministro Di Maio andava in aeroporto a ricevere gli aiuti cinesi, subito utilizzati a scopi interni dalla propaganda di Pechino. L’entusiasmo da quelle parti era tale che la portavoce del dipartimento dell’informazione del ministero degli Esteri cinese pubblicò un video che, a suo dire, mostrava moltitudini di italiani intenti a cantare l’inno del suo paese dai balconi di casa.

Vi ricordate il 25 marzo, la data che vi avevo chiesto di segnarvi e tenere da parte? Ecco: quando quel giorno uscì il celebre pezzo di Mario Draghi sul “Financial Times” – quello nel quale diceva che la pandemia era come una guerra, e che davanti a una guerra gli stati devono indebitarsi perché le economie per ripartire dopo la guerre devono farsi innanzi tutto trovare vive – per me, come credo per tanti, fu come un’epifania. Una cosa era chiara: l’Italia era come una squadra di calcio che perde 3-0 alla fine del primo tempo e tiene inspiegabilmente seduto in panchina un Diego Armando Maradona al culmine della forma fisica. Come potessimo a quel punto, in quell’assoluto disastro, fare a meno della autorevolezza planetaria, dell’esperienza tecnica e del carisma indiscusso di Mario Draghi, Dio solo lo sapeva.

La versione di Ivan. Storia di un resistente negli anni del populismo, Ivan Scalfarotto, La Nave di Teseo, 208 pagine, 20 euro

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