«Martedì è morto mio padre». Quando Mattia Torre scrive “Migliore” siamo ancora nel mondo di prima: quello in cui se vuoi raccontare i fatti tuoi in pubblico bisogna che tu convinca un programma televisivo a invitarti. Non puoi accendere la telecamera del telefono e intrattenere il mondo coi tuoi lutti, le tue gioie, i tuoi amori, le tue malattie.
Quando sabato sera è apparso in tv Valerio Mastandrea, a interpretare con la regia di Paolo Sorrentino il monologo d’un perdente che non resta tale, la terza cosa che ho pensato era che uso strepitoso stesse facendo della voce – ma questo mica vorrete farvelo spiegare da me, andate a guardarlo, spiegare le voci è come ballare d’architettura.
La seconda cosa che ho pensato è che non so neppure se Mattia Torre avesse mai avuto una pagina social; Mastandrea ha un account su Twitter ma lo usa molto meno di Joyce Carol Oates, molto meno di Carlo Calenda, molto meno di qualunque abitante di questo tempo sbandato. Raccontare i fatti propri agli sconosciuti è un talento o è il rifugio di chi non ha talenti?
Philip Roth diceva che uno scrittore che mette su la maschera della prima persona singolare è uno che sta sul palcoscenico e si finge un secondo sé, sempre e comunque: sia che si finga migliore sia che si finga peggiore. Ma non è di scrittori, che stiamo parlando. È di gente che – non avendo amici cui dirlo, o non sembrandole vero ciò che non si svolge in pubblico – dice agli sconosciuti: martedì è morto mio padre. E non lo dice, come Mastandrea, protetto da un copione, tutelato dal fatto che in platea ci sono spettatori paganti, non lo dice nei panni di. Lo dice davvero.
È una forma di esibizionismo, certo. Una volta andavi in tv, adesso è cambiato lo strumento, non è che sia diverso, è solo più pericolosamente autogestito. Si può farlo con intelligenza? Si può essere esibizionisti con uso di continenza? Nessuno meglio di Mastandrea incarna la dimostrazione che gli strumenti sono solo strumenti, se siete abbastanza vecchi da ricordarvelo al Maurizio Costanzo Show. Poteva diventare Sonia Cassiani: è diventato Valerio Mastandrea (se non siete abbastanza vecchi da ricordarvi chi fosse Sonia Cassiani, chiudete l’internet e andate a fare i compiti).
La prima cosa cui ho pensato sono stata io (ma che eccezione, puntesclamativo) e il mio disastroso rapporto coi servizi clienti, quando il personaggio di Valerio Mastandrea ha spiegato che lui lavorava per Happy Life, il servizio per i titolari della carta Emerald (immagino che Torre avesse scelto lo smeraldo perché il platino e il diamante nelle carte di credito esistono davvero, e chi ha voglia di farsi fare causa; o forse aveva una qualche familiarità con Bologna, dove la carta smeraldo apre i cassonetti, e quindi rideva quanto rido io all’idea che sia un bene di lusso).
Un cliente lo chiama perché è a Lampedusa e vuole mangiare messicano. O vuole una Porsche gialla. O dell’acqua minerale di quella che dice lui, mentre si trova in Nepal (ogni volta che una famosa attrice americana fa qualche post ecologista di quelli che oggi non puoi non fare, se sei uno di quegli esibizionisti che tengono all’approvazione, penso a quella volta che era a Roma per promuovere un film e le ragazze della distribuzione giravano per la città disperate cercando l’acqua Fiji, l’unica che la signora bevesse, imbottigliata a diciassettemila comodi chilometri).
Sbavavo d’invidia pensando a Just Eat che mi lascia senza cena perché il fattorino non ha voglia di fare le scale. Pensando a quel negozio di vestiti inglesi cui chiedo come cancellare un acquisto sbagliato e che mi risponde alla mail dopo otto giorni, quando l’acquisto non solo è già arrivato ma l’ho pure già restituito. Pensando agli operatori telefonici ognuno dei quali è tenacemente odiato da clienti ed ex clienti sempre convinti che col prossimo cambierà tutto, non disposti ad arrendersi all’evidente cartello della cialtroneria: finché il wifi funziona, tutto bene; ma appena qualcosa non va, nessuno ti verrà in sollecito soccorso, per i miseri venti euro al mese che paghi.
Guardavo e pensavo quanto avrei voluto essere titolare di carta Emerald. Una volta credevo che, fossi mai diventata ricca, mi sarei concessa un autista. Un massaggiatore. Un cuoco. Ora so che la prima cosa in cui investirei è un servizio clienti che non mi metta in attesa con la musichetta per poi dopo diciassette minuti dirmi che non risolverà il mio problema ma ho diritto a tre euro di credito per il disagio.
Da quando stiamo sul palcoscenico tutto il giorno – e non a sbagliare da professionisti, non con un copione, ma ci stiamo coi nostri mi si è ammalato il cane, coi nostri è morto mio padre, coi nostri oggi è il mio anniversario di matrimonio e voglio festeggiarlo con voi che ci avete sempre seguiti – da quando i fatti nostri sono la valuta con cui paghiamo l’iscrizione a Happy Life, questo meccanismo ci ha mangiato i neuroni, e lo facciamo con sempre meno intelligenza. Ci stupiamo se coloro che abbiamo conquistato raccontando loro della nostra vita poi sulla nostra vita hanno opinioni perentorie. Scendiamo nell’arena e trasecoliamo se ci troviamo i leoni.
Poi Mastandrea smette di volere «le cose di una volta», passa da mite a spietato, e dice al capo dell’azienda che ne sposerà la figlia. «Ci mancherebbe altro: ci sposeremo in chiesa, certo», dice. E la quarta cosa che penso è che un classico è un’opera che sembra sempre stia commentando l’attualità, anche se non s’è mai sognata di farlo.