Un anno addietro, di questi tempi, il Governo Draghi e il Parlamento della diciottesima Legislatura commettevano un grave errore, varando una riforma sbagliata e dannosa.
Con il Decreto Legge 21 ottobre 2016, n. 146, il cosiddetto Decreto Fiscale, veniva infatti «semplificata» – stando alla lettera dell’art. 6 del suddetto decreto – la disciplina del Patent Box.
Il Legislatore, in realtà, metteva in atto una vera e propria abrogazione di una delle misure di agevolazione fiscale di maggior successo e utilità degli ultimi anni.
Infatti, mentre il vecchio Patent Box prevedeva una detassazione degli utili derivanti dall’utilizzo del patrimonio intangibile aziendale (da cui, nel corso del 2016, fu escluso il marchio), la nuova disciplina garantiva una maggior deduzione dei costi connessi allo sviluppo dello stesso patrimonio.
Dunque cambiava radicalmente il target dei contribuenti interessati alla misura: si passava dal Patent Box originale, che premiava le aziende con un’alta marginalità grazie all’uso di beni intangibili, al Patent Box riformato, che premiava e premia le imprese con maggiori capacità di spesa.
Gli autori di questo intervento si erano adoperati in ogni sede, già a partire dalla circolazione delle primissime bozze del Decreto Fiscale, per segnalare che, con la nuova normativa, a essere danneggiate sarebbero state (come poi è effettivamente accaduto) quelle piccole e medie imprese di successo, campionesse del Made in Italy (le cosiddette Multinazionali Tascabili o anche Imprese Innovazionali), con costi relativi ma tanta efficienza e qualità, in favore dei grandi gruppi multinazionali.
Numerosi erano stati gli appelli del mondo professionale e imprenditoriale per salvare la precedente disciplina.
Il suggerimento maggiormente condiviso era stato quello di affiancare le due normative, il vecchio e il nuovo Patent Box, rendendoli l’uno alternativo all’altro.
Detta soluzione era stata anche recepita in alcuni emendamenti presentati, sia in sede di conversione sia nel corso della sessione di bilancio, da esponenti parlamentari di maggioranza ed opposizione.
Non si riuscì però a scalfire l’intento di Governo e Parlamento.
Si modificò, in occasione della Legge di Bilancio per il 2022, la norma del nuovo Patent Box, ma addirittura in senso peggiorativo, con l’esclusione dall’area di rilevanza dell’istituto di due beni intangibili inizialmente inclusi: il marchio e il know-how.
Se per il primo la decisione era una diretta conseguenza delle direttive Ocse, per il secondo la decisione ha rappresentato un autentico abbaglio, un colpo ferale alla competitività di larga parte delle aziende italiane, ricche di conoscenze e competenze ma tradizionalmente non molto dedite al deposito brevettuale, anche per la specifica collocazione a metà della catena della produzione di valore e di beni.
Della centralità del know-how, della capacità delle piccole e medie aziende italiane di dedicarsi ad una innovazione incrementale, dei rischi che le aziende del Made in Italy corrono se non sono pienamente consapevoli della ricchezza del loro patrimonio intangibile e delle opportunità di crescita economica e in termini di competitività che la valorizzazione del know-how garantisce comunque (a dispetto della sua abrogazione dal perimetro del Patent Box), si parla ora in un saggio uscito nei giorni scorsi: “Know-how – Quello che le imprese non dicono…”, a firma di Francesco Rizzo, edito da Rubbettino Editore.
La vicenda di fine 2021, con protagonisti il Governo Draghi ed il Parlamento della diciottesima Legislatura, ha testimoniato – a prescindere dalle specifiche opinioni sulle questioni tecniche – un grave distacco tra i decisori politici e istituzionali e la realtà del Paese.
L’impostazione del nuovo Patent Box implica una scarsa conoscenza, da parte chi lo ha studiato e promosso, del vivo tessuto imprenditoriale italiano, che nella sua essenza è composto da una miriade di straordinarie Pmi innovative, o multinazionali tascabili o imprese innovazionali che dir si voglia, a fronte della presenza di pochi gruppi multinazionali.
L’attuale conformazione della disciplina del Patent Box conferma inoltre come in alcune sedi si ignori la struttura e il funzionamento della stragrande maggioranza delle nostre aziende, ricche di beni intangibili e con un forte patrimonio conoscitivo, costituito in larga parte proprio dal cespite che si è inteso escludere dal novero dei beni agevolabili: il know-how.
Nell’introduzione del saggio citato si professa l’ambizione di convincere «il legislatore a tornare presto sui suoi passi rendendo di nuovo centrale il know-how nelle politiche industriali e fiscali», in ragione della sua natura di punto «cardine su cui si fonda il successo del Made in Italy».
Così ora ci rivolgiamo al Governo Meloni e al Parlamento della diciannovesima Legislatura.
L’auspicio è innanzitutto che venga meno quel distacco tra palazzo delle istituzioni e Paese delle imprese.
Il Patent Box, operativamente, si è rivelato uno strumento di straordinaria utilità per una larga platea delle nostre aziende, che nel momento in cui è stato sradicato stava offrendo un’ottima prova di sé, contribuendo alla competitività dell’intero sistema Paese.
La nostra proposta, per fare in modo che le imprese italiane possano competere con successo sui mercati nazionali e internazionali, senza subire penalizzazioni nei confronti della concorrenza estera, è dunque la seguente:
• l’introduzione, in primo luogo, di un regime di alternatività tra il Patent Box originale e il Patent Box riformato, con vincolo di adesione all’uno o all’altro per un periodo di cinque anni;
• l’inserimento del know-how, in secondo luogo, tra i beni intangibili valorizzabili nel Patent Box riformato, con una premialità quantitativa per gli investimenti incrementali effettuati in termini di innovazione.
Chi scrive è ben consapevole delle sfide alle quali il Governo e il Parlamento dovranno fare fronte con la prossima sessione di bilancio, anche in ragione delle drammatiche vicende di politica internazionale e delle conseguenze in termini di crisi economica ed energetica.
A maggiore ragione, se si vuol tenere la barra a dritta nella tempesta, bisogna avere ben salda l’idea che la bussola della ripresa non può che essere la competitività delle nostre imprese, da sostenere con pragmatismo e lungimiranza.