L’ultima trinceaPerché la guerra in Ucraina può finire solo con una vittoria di Kyjiv

L’invasione russa è l’ultima declinazione di un imperialismo secolare: non ci sarà una pace duratura finché questa mentalità non sarà sradicata dal Cremlino. Gli ucraini combattono anche per i russi democratici, o al posto loro

Statuette di metallo di Vladimir Putin e Stalin
AP Photo/Dmitri Lovetsky

No, Vladimir Putin non è stato provocato. La Nato era solo un pretesto. La «denazificazione» è diventata una specie di crociata contro Satana, ma la mobilitazione dell’opinione pubblica è stata come quella militare: parziale, al più coatta. Dopo otto mesi non si può continuare a credere a queste mistificazioni. Sotto la propaganda, niente. L’Ucraina è invece l’ultima trincea dell’imperialismo russo, aggressivo all’esterno per nascondere la debolezza interna. Non esiste una pace che non lo estirpi, perché sarebbe temporanea. Lo riconoscono per primi i dissidenti russi, con una certa agibilità mediatica. Il conflitto può finire solo con una vittoria di Kyjiv.

Uno dei migliori editoriali della settimana l’ha firmato Boris Johnson sul Wall Street Journal e dice la stessa cosa. Non c’è niente da negoziare. C’è una sola opzione percorribile ed è la sconfitta di Mosca, che sembra già iniziata. Le difficoltà dell’esercito invasore sono evidenti. La ritirata da Kherson in buon ordine sarà anche un consolidamento del fronte in vista dell’inverno, ma segna la liberazione del primo capoluogo regionale caduto, lo scorso 2 marzo, nelle mani dei russi. Nonché l’unico che siano riusciti a tenere. Dimostra l’efficacia del sostegno occidentale, anche e soprattutto attraverso l’invio di armi.

Scrive l’ex primo ministro inglese: «Pure se gli ucraini venissero convinti a cedere i loro diritti su una parte della loro terra – cosa che non potrebbero, vorrebbero né dovrebbero fare – non c’è alcuna ragione per credere che Putin rispetterebbe i patti». Ha millantato di controllare Kherson proprio mentre Volodymyr Zelensky ci camminava. Johnson è più lucido di altri colleghi ancora in carica quando tuona contro ogni appeasement, o l’assurdità di concedere una «via d’uscita» onorevole al dittatore. Passa dal ritiro dei russi, fino all’ultimo uomo.

Non bisogna confondere la cartografia delle offensive con il vero obiettivo dell’aggressione: «Non vuole solamente un ponte, vuole l’intero Paese. Ha trascorso così tanto tempo nella sua bolla pandemica, ascoltando consigli semi-mistici da sacerdoti ortodossi con la barba, che si è convinto di essere destinato a vendicare gli insulti della Storia e riunificare l’impero di Pietro il Grande. Naturalmente Zelensky vorrebbe trattare, ma non puoi negoziare con un impostore omicida che, qualsiasi cosa sostenga, continuerà a cercare di distruggere la tua nazione».

L’«operazione militare speciale» è il preciso tentativo neocoloniale di soggiogare, e se necessario annientare, uno Stato confinante, in piena tradizione con lo zarismo e lo stalinismo. Lo dimostra anche l’inconsistenza delle attenuanti che il Cremlino ha avocato a sé, stratagemmi a cui sembrano credere solo i peggiori teorici del complotto e gli opinionisti dei talk show italiani. Una recente analisi dell’Atlantic Council li ha smontati uno a uno.

Primo, le fantomatiche «minacce» della Nato. Condividere le frontiere con l’Alleanza Atlantica non sembra la principale preoccupazione di Putin, almeno non quanto colpire obiettivi civili in Ucraina. Basta ricordare la freddezza, e quasi la passività, con cui (non) ha reagito alla richiesta di ingresso nel Patto della Svezia e soprattutto della Finlandia, dirimpettaia della Federazione lungo un confine di mille trecento chilometri. Nei mesi successivi, anzi, ha ridotto la presenza militare per dirottare in Ucraina i reparti di stanza nella regione scandinava.

Sulle accuse di nazismo – anche se nove mesi dopo non dovrebbe esserci il bisogno di ribadire che i nazisti veri stanno a Mosca – è sufficiente un dato elettorale. In trentun anni di indipendenza e vita politica autonoma di Kyjiv, l’estrema destra non ha toccato palla. Se in Europa, incluse Germania e Francia, l’ultradestra ha toccato percentuali a doppia cifra, nella Repubblica è rimasta marginale: ha preso l’1,6 per cento alle presidenziali vinte da Zelensky nel 2019 e il 2,16 alle elezioni parlamentari di qualche mese dopo.

Quella di Putin è una guerra di conquista, ma è intrisa di un imperialismo più antico di lui. Proprio come il conflitto, (ri)cominciato nel 2014. L’ideologia alle sue basi è radicata nella classe dirigente russa. Finché non verrà debellata, non sarà possibile immaginare una tregua di lungo periodo. Lo ha messo nero su bianco Alexei Navalny in un ormai celebre intervento sul Washington Post. Il dissidente ricostruisce l’invidia secolare dietro l’ossessione per l’Ucraina di una parte della popolazione che ha percepito ogni successo di Kyjiv come un torto, quando dovrebbe prendersela con la propria forma di governo assolutistica.

«Dalla seconda guerra cecena a quella in Donbas e Siria – argomenta Navalny –, in ventitré anni l’élite russa ha imparato regole che non hanno mai fallito: la guerra non è costosa, risolve tutti i problemi domestici, aumenta incredibilmente i tassi di approvazione, non danneggia particolarmente l’economia e soprattutto i vincitori non devono rendere conto delle loro responsabilità». E alla fine l’Occidente cede. «Il vero partito della guerra è l’intera élite e il sistema di potere, che è un’eterna replica dell’autoritarismo russo di stampo imperiale. […] Questa è la vera maledizione della Russia e la causa di tutti i suoi problemi».

Le occasioni passate di liberarsene sono fallite, ma l’oppositore spera in una «democrazia parlamentare» per la Federazione del futuro, quella liberata dal wannabe zar e dai suoi accoliti cleptocrati. «Troppe persone in Russia – conclude Navalny – sono interessate a una vita normale, non ai fantasmi delle conquiste territoriali. E sono sempre di più ogni anno, solo che non hanno ancora qualcuno per cui votare». Ma dov’è allora questa maggioranza silenziosa?

Sull’Atlantic, Anne Applebaum ha raccontato la primavera di Riga, cioè la comunità di emigrati politici russi in esilio in Lettonia. Descrive le battaglie del fuoriuscitismo impossibilitato a portarle avanti in patria, il tentativo di raggiungere i concittadini con una narrazione alternativa fondata sulla verità sul reale andamento della guerra e sui delitti perpetrati dall’esercito. Applebaum tratteggia la nascita di un movimento antimperialista, ricorda i diciassettemila arresti per le proteste contro il regime. O il proposito di Garry Kasparov di creare una «Corea del Sud virtuale» in antitesi alla sua patria sempre più simile a Pyongyang.

Altre volte, nella storia russa, è nata all’estero una tendenza politica che avrebbe rivoluzionato l’Eurasia. In passato, però, poi è spesso ricaduta nei sogni di grandeur. Se come sostiene Applebaum i cittadini si sono accorti che il destino dell’autocrazia è saldato a quello dell’impero, quel feticcio va tanto più abbattuto perché il dopo Putin non sia l’eterno ritorno di una bellicosità anacronistica, o una sindrome da arto fantasma estesa all’intera area dell’ex Unione sovietica. Per il momento, l’Occidente può contribuire armando Kyjiv. Oltreché per noi, gli ucraini combattono anche per i “russi democratici”. O al posto loro.

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