Welfare universalisticoL’ingenuità dei Cinquestelle e i difetti del reddito di cittadinanza

I grillini hanno sempre presentato la loro misura bandiera come una misura contro la povertà, ma in realtà dovrebbe essere contro la disoccupazione. E soprattutto non è una novità: esiste da decenni più o meno in tutta Europa

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Il welfare per la disoccupazione sul modello universalistico di Beveridge, che abbiamo chiamato in Italia “reddito di cittadinanza”, non è mai piaciuto alla sinistra, non piace alla destra e il Movimento 5 Stelle non sa che cosa sia veramente (almeno a sentirli parlare).

Da questa premessa vengono i due peccati originari del “reddito di cittadinanza” italiano: 1) è stato presentato come una misura contro la povertà, mentre è un sussidio per la disoccupazione, e 2) non è stato presentato come una realtà che, più o meno dal dopoguerra, esiste già nel resto d’Europa.

Se si fossero tenuti presenti questi due punti, il percorso della riforma sarebbe stato diverso, ma è anche vero che, se questi punti non sono stati tenuti presenti, è perché una vera riforma, probabilmente, non la si vuole o non se ne immagina il senso.

Il fatto incontrovertibile che misure analoghe (ma ben architettate) esistono negli altri Paesi europei avrebbe costretto sia i critici che i sostenitori del reddito di cittadinanza a confrontarsi con gli altri Paesi. Ma l’assenza dell’ancoraggio all’esperienza europea ha permesso che emergessero proprio quelle arretratezze che ci si aspetta da una sinistra corporativa e da una destra di nuovo corporativa.

I «poveri», invece, mettono d’accordo tutti. Chiedono soldi e non riforme del lavoro. Sono il minimo comune denominatore ideologico che permette di spostare il punto della questione da tutt’altra parte. Segue, per conseguenza diretta, la disinvolta retorica dei pigri sul divano e le piazzate peroniste dai balconi, con annessi annunci trionfali del primo governo che ha deciso di porre fine alla povertà con una legge finanziaria.

La confusione tra povertà e disoccupazione riassume un quadro ideologico antico. È una premessa che conduce verso una sola direzione. Aristotele dice che un errore poco evidente all’inizio del ragionamento diventa un grande errore alla fine. E qui la fine è la fine dello stesso reddito di cittadinanza.

Se sposti il peso dalla disoccupazione alla povertà, la conclusione del presidente del Consiglio Meloni, e di tanti altri, suona sensata: perché dovremmo sussidiare chi può lavorare? Sussidiamo i poveri, invece, che non possono lavorare.

Però l’impostazione del problema rivela l’equivoco. Non si tratta di aiutare i poveri, ma i disoccupati temporanei. I benefit (come dicono gli inglesi) per la disoccupazione nascono storicamente dalla presa d’atto di un fatto: nelle nostre economie esiste la disoccupazione.

Il rilievo che sfugge è che il welfare ha un ruolo, positivo o negativo nel funzionamento delle nostre economie. Non è un aspetto neutrale. I benefit per la disoccupazione coprono, da una parte, i periodi di mancanza di reddito, dall’altra, però, hanno lo scopo, non secondario, di allocare il lavoro dove serve. Non è un utilizzo del welfare che è solo assistenza, ha anche un impatto sull’efficienza del mercato del lavoro.

La flessibilità del lavoro senza sussidi di disoccupazione adeguati significa vivere in un mondo vecchio, pensare in modo vecchio, essere, soprattutto, i rappresentanti di un’economia povera, che ha bisogno di lavoro nero e di bassissimi salari.

L’universalismo è meno distorsivo dei privilegi corporativi. Ma è ingenuo aspettarsi che in Italia si combattano i privilegi corporativi. Per la destra in stile Meloni, peraltro, il welfare corporativo è tradizione e Dna (v. voce “corporativismo”). Una storia che, c’è poco da fare, è stata condivisa, e non per caso, anche dalla sinistra, che dal dopoguerra ha rifiutato il welfare universalistico di Beveridge. Mi ha sempre colpito che il Report di Beveridge sia stato tradotto in italiano dall’esercito occupante inglese.

Il punto è che una cosa è il welfare e un’altra è il lavoro. Nei Paesi poco sviluppati, invece, lavoro e welfare sono la stessa cosa e si crea un’occupazione fittizia.

I sussidi di disoccupazione sono pensati come una rete utile soprattutto, ma non esclusivamente, per i giovani che hanno lavori precari, che non hanno rappresentanza sindacale, che sono fluidi o flessibili. La risposta ideologica è abolire la precarietà, abolire la disoccupazione, nazionalizzare l’economia e via con la saga (la banca che stampa moneta, il sovranismo di destra e di sinistra, e vari rossobruni assortiti). La sinistra italiana ha sempre visto in queste misure dei contentini, e non avrebbe mai accettato il reddito di cittadinanza se il Movimento 5 Stelle non l’avesse scavalcata.

L’esclusione sociale, il recupero alla società delle persone perdute, però, anche qui permette di andare d’accordo. Ma nel mondo che non è rimasto fermo agli anni Cinquanta, una persona perfettamente integrata nella società può essere temporaneamente disoccupata e per questo percepire un sussidio.

A questo punto salta sempre fuori qualcuno a dire che, no, per i disoccupati esiste la Naspi. Sbagliato. La Naspi è un’altra cosa: è un’indennità contro la disoccupazione, è un’assicurazione a cui lo stesso lavoratore contribuisce con dei versamenti mensili, ha la durata di un anno, con un importo pari al settantacinque per cento della retribuzione perduta, e si può chiedere dopo due anni di lavoro. Ma che cosa succede per chi è precario e non mette insieme due anni di contributi, per chi ha diciotto anni e cerca e non trova il primo lavoro, per chi dopo la Naspi non trova un’occupazione?

Facciamo l’esempio di un giovane olandese, inglese, francese, tedesco, irlandese: è in età da lavoro, non ha mai lavorato prima, vuole lavorare, e invece di rivolgersi all’amico influente di turno, entra in un Job Centre per chiedere se è disponibile un lavoro, ad esempio, da camionista (o un altro lavoro coerente con la sua formazione professionale).

Se nessuno al momento ha bisogno di un camionista, allora, dietro la sottoscrizione di un impegno a lavorare come camionista appena possibile (pena la perdita del sussidio), può beneficiare di un modesto sussidio potenzialmente illimitato nella durata. Se dovesse perdere il lavoro da camionista, allora può chiedere un’indennità di disoccupazione (analoga alla Naspi), che una volta terminata senza trovare un’occupazione torna al sussidio di base, quello che in Italia abbiamo chiamato reddito di cittadinanza.

Diamo allora i nomi di questi strumenti così ci capiamo meglio e ognuno può verificare (basta anche Wikipedia). Il “reddito di cittadinanza” tedesco si chiama Arbeitslosengeld II. Già il nome dice che si tratta di soldi (Geld) per i disoccupati (Arbeitslosen). Perché poi segue il numero II? Perché evidentemente esiste un primo sussidio, Arbeitslosengeld I, che è appunto l’indennità di disoccupazione.

In Francia quello che da noi si chiama “reddito di cittadinanza” si chiama Revenue de solidarité active, mentre in Gran Bretagna e in Irlanda si chiama Jobseeker Allowance (anche qui dal nome si vede che non riguarda i poveri ma chi cerca un lavoro).

Come si capisce, questi strumenti hanno una funzione di rete di base per chi non ha ancora una posizione definita o per la disoccupazione di lungo periodo. Certamente è vero che questi sussidi sono anche degli strumenti contro la povertà, ma lo sono in seconda battuta: è evidente che il disoccupato è «a rischio di povertà».

L’altra parte della storia è che un Job Centre che funzioni sarebbe per l’Italia una rivoluzione più grande dello stesso reddito di cittadinanza. Significherebbe che i precari e i disoccupati, che non sanno dove sbattere la testa, non sono lasciati soli. Ma sono cose che non si improvvisano con i navigator.

La realtà è che si sussidiano in Italia tanti settori di economia arretrata, come deriva dall’ipotesi della tassa ad Amazon. Il punto è che, come per le licenze dei tassisti, le concessioni eterne per i balneari, il lavoro nero che pago con cinquemila euro non tracciabili, si preferisce sussidiare un’economia da rendita. È un Paese vecchio, che spende per le pensioni, per le rendite, e toglie la rete per i giovani flessibili, che però pagano per tutta la baracca.

L’idea che si debba sussidiare l’economia da quattro soldi e l’idea che la povertà si possa risolvere con dei sussidi vengono dallo stesso paniere. Sussidiare i poveri appare come una lotta sociale in risposta al sussidio delle rendite. Ma siamo dentro lo stesso orizzonte angusto da economia concettualmente fallita.

Gli addetti ai lavori conoscevano bene la questione del welfare per i lavoratori ben prima del Movimento 5 Stelle. Romano Prodi, ad esempio, aveva istituito una commissione per adeguare il welfare italiano a quello europeo, che è finita nel nulla. Per prendere un altro esempio clamoroso e drammatico – a dimostrazione che la storia della riforma del welfare precede il Movimento 5 Stelle – il volantino di rivendicazione dell’omicidio del giuslavorista Massimo D’Antona lo accusava di lavorare a uno schema di reddito di ultima istanza che avrebbe permesso allo stato, scrivono, di disimpegnarsi sul tema del lavoro.

Se la storia è vecchia, è perché si è perso molto tempo. In altre parole, il sussidio di disoccupazione non è mai piaciuto. Forse perché troppo liberale, troppo poco paternalistico, perché non ti lega a un caporale.

Colpisce, allora, che alcuni liberali europeisti italiani si siano sbracciati a rappresentare i disoccupati come pigri da divano, nonostante il fatto che la riforma sia stata raccomandata nel corso di vari decenni dalle istituzioni europee.

Il fatto che la Caritas si sia occupata di valutare i risultati del reddito di cittadinanza riflette l’equivoco della povertà. Nel suo studio, rileva che il reddito di cittadinanza non incontra tutte le esigenze dei poveri e considera più opportuno che a gestire i fondi siano gli operatori sociali dei comuni. Tutto comprensibile, a patto che il reddito di cittadinanza sia un sussidio per i poveri. Ma come dare torto alla Caritas, se i primi ad averlo presentato come un sussidio per i poveri sono stati gli esponenti del Movimento 5 Stelle?

La Cgil, per parte sua, è sempre stata fredda, in linea di massima, verso i sussidi di disoccupazione universalistici. La ragione è che preferisce un welfare corporativo, che offra spazio per la contrattazione e un ruolo maggiore per il sindacato. La stessa diffidenza dei sindacati c’era, se non sbaglio, anche in Olanda, ma fu superata lasciando che fossero i sindacati a gestire il welfare, senza che venisse meno, però, la funzione universalistica.

Ora, si dirà: ma non sono evidenti le storture prodotte dal reddito di cittadinanza? Certo. Ma se si leggessero i giornali stranieri, si scoprirebbe che le stesse polemiche viste in Italia sono fiorite anche in Inghilterra, Germania, Francia. Raccolsi molti casi presi dai tabloid, che sono una buona fonte per la polemica su questa materia che eccita il senso populista della giustizia. Ma questo non mette in dubbio i benefici dell’intero sistema. Sarebbe come smantellare i tribunali a causa degli errori giudiziari.

Va ricordato, nel caso fosse sfuggito, che una delle ragioni della Brexit, una ragione molto sentita dalla gente comune, è stata quella di impedire agli europei (sovente gli europei dell’Est e del Sud) di beneficiare del welfare inglese.

David Cameron ottenne dall’Unione europea, per sostenere il Remain, di potere escludere dal Jobseeker Allowance i cittadini europei per un certo numero di anni. Non può sfuggire che non è un tema marginale. Un’altra cosa c’è da ricordare. Margaret Thatcher chiuse le famose miniere di carbone improduttive, non sospese il Jobseeker Allowance, e la polemica di sinistra era quella rappresentata da Ken Loach: il lavoro di stato era finito, interi quartieri vivevano con il Jobseeker Allowance. Naturalmente, il Jobseeker Allowance non è però per questo responsabile della disoccupazione.

Contro gli abusi sono state varate, negli altri Paesi, delle riforme che hanno reso il sistema più efficiente, e se ci fossimo resi conto, non solo del carattere europeo, ma del suo decennale processo di rodaggio, avremmo potuto trarne giovamento per la nostra riforma. La quale, invece, ha messo insieme tutto quello che non si dovrebbe mai fare: niente Job Centre, niente formazione, nessun controllo. Non si è fatto niente perché non fare niente è nella logica del sussidio contro la povertà.

Viste le premesse, poteva andare molto peggio. In realtà, infatti, in Italia è stato speso meno del previsto per il reddito di cittadinanza.

Mi sbilancio con una previsione. Da decenni l’Unione europea invita l’Italia a cambiare registro, e non (solo) per carità e buoni sentimenti, ma perché il welfare è anche uno strumento per allocare il lavoro dove serve.

Uno dei temi è forse anche quello degli aiuti occulti di stato, che facilita il welfare categoriale. Comunque sia, cito il testo della famosa lettera Draghi-Trichet dove si raccomandava all’Italia «un sistema di assicurazione dalla disoccupazione e un insieme di politiche attive per il mercato del lavoro che siano in grado di facilitare la riallocazione delle risorse verso le aziende e verso i settori più competitivi».

La virtù del welfare universalistico non sta solo nella maggiore efficacia rispetto alle politiche corporative, ma è anche un capitolo della limitazione liberale del potere. Beveridge era un liberale non per caso. L’universalismo impedisce che la politica abbia “contatto” con il bisogno che nasce dalla disoccupazione: altrimenti lo farà per cercare voti, consenso settoriale, per garantire rendite.

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