Il dibattito al tavolo 2 bis, moderato dalla giornalista Arianna Galati, ha permesso a tredici operatori del settore, rigorosamente under 40, di riflettere sulla situazione attuale della ristorazione italiana, sulle cause dei problemi e delle difficoltà emerse soprattutto negli anni dalla pandemia e sugli scenari futuri.
Il brainstorming iniziale e le riflessioni individuali hanno evidenziato numerosi temi di discussione, e i partecipanti sono stati continuamente stimolati dalla moderatrice affinché emergessero punti comuni e punti di differenza nell’ottica di proporre soluzioni alle problematiche messe in luce.
Dal giro di interventi è venuto fuori il bisogno di nuova riflessione sulla sostenibilità nei ristoranti e nelle cucine. È stato sempre duro lavorare in questo settore ma oggi, più che mai, il problema principale è la sostenibilità – non solo umana ma anche economica – degli operatori che lavorano nella ristorazione. Per una rifondazione occorre ripartire dalle persone.
Gestire un’attività comporta una serie di sacrifici per le imprese. I costi di gestione sono sempre più alti, soprattutto per un’azienda piccola che non si può permettere doppi turni del personale o doppio chef. Alzando i prezzi, però, si rischia di non trovare più clienti disposti a pagare decine di euro per un piatto, quelli che se lo possono permettere sono sempre più pochi. Il lavoro di cuochi e camerieri, inoltre, è visto oggi sotto un’altra prospettiva.
Emerge dal dibattito che non sempre i giovani che vogliono intraprendere un percorso formativo e successivamente lavorativo possiedono la passione e la volontà di imparare, come invece i loro coetanei di qualche anno fa. E non tutti sono disposti a fare sacrifici.
«Ho ventotto anni a lavoro da quando ne avevo quattordici – ha affermato Pierpaolo, pasticcere e gelatiere a Firenze, formatosi al Cast Alimenti – e ho scelto questo lavoro per esigenze economiche. Fino al termine della scuola superiore ho ricevuto soltanto piccole paghe, quando cercavo di entrare nelle cucine non mi prendevano perché ero minorenne e sono cresciuto con la “bibbia della ristorazione”: sacrificio, devozione, scottature, rinunce. Ho visto colleghi che non sono riusciti a tenere i ritmi intensi di lavoro (anche ventidue ore al giorno) e a subire conseguenze per la propria salute. Ho perfino rinunciato a un ingaggio interessante per le condizioni cui avrei dovuto sottostare».
Il lavoro, la sostenibilità, l’etica, ma soprattutto la passione e la salute sono i primi spunti di riflessione per i partecipanti al tavolo. «Perché il lavoro deve sottostare a questa visione di sacrificio, se dev’essere allo stesso tempo sostenibile e svolto con passione?» si è chiesta Arianna Galati.
Dopo la pandemia qualcosa forse è cambiato e, almeno per una parte, la carenza di personale ne è la conseguenza. Le tante ore di impegno richieste, anche fino a tarda sera e nei weekend, la mancanza di tempo libero, la precarietà del mercato del lavoro e lo stipendio non sempre assicurato spingono i giovani a cercare altri impieghi.
«Durante l’estate è stato difficile trovare dipendenti per il mio ristorante» ha puntualizzato Simone, chef di Genova. «Dopo il Covid ho notato un cambio di mentalità: le persone si sono rese conto che dedicare tutta la propria vita al lavoro non è la cosa giusta da fare. È anche una questione etica per noi ristoratori. Personalmente non potrei far lavorare cuochi e camerieri e non riuscire a pagarli per mesi interi. È necessario, inoltre, un equilibrio tra sacrificio, passione e tempo libero di cui una persona ha bisogno».
Convengono in tanti che il contratto di lavoro per gli operatori della ristorazione dev’essere diverso da quello di altri settori, quali il commercio al dettaglio. Ciò consentirebbe una maggiore trasparenza dell’offerta e sarebbe una garanzia soprattutto per i giovani che vogliono iniziare a lavorare. Pochi però sono quelli che provengono da un percorso formativo efficace. Gli istituti alberghieri non sempre riescono a orientare e appassionare i ragazzi favorendo il loro inserimento attraverso stage e apprendistati validi e possibilmente retribuiti. Ripensare la formazione, forse, non sarebbe una cattiva idea.
«Il problema, però, è anche culturale» afferma Alessio, chef e manager romano. «Oggi si vuol fare impresa in un Paese in cui è difficile imporsi. Le aziende sono per i più a conduzione familiare, modello che domina da decenni, mentre in tutto questo tempo all’estero si è pensato a costruire nuovi format. A mio avviso ci sono grandi competenze in cucina o in sala ma non vedo altrettanto nel campo dell’imprenditoria».
Rifondare la mentalità, quindi, in un settore altamente competitivo. E per guardare al prossimo futuro e per dare nuovo slancio alla ristorazione italiana i giovani partecipanti al confronto del Festival di Gastronomika hanno pensato a qualche soluzione. Guardare, ad esempio, a modelli più flessibili e sostenibili, che tengano conto della qualità e della quantità del lavoro nelle cucine e nelle sale, richiedere un sostegno alle imprese anche detassando il costo del lavoro o la pressione fiscale in generale, creare una rappresentanza di tipo sindacale per gli operatori del settore che possa fare emergere i bisogni di una categoria di certo poco tutelata.
È chiaro che restituire appeal è un’esigenza inderogabile per la nostra ristorazione. Oggi la sfida è puntare alla modernità con una visione innovativa che non tralasci l’esperienza e la tradizione che hanno accompagnato negli anni l’offerta di cibo in Italia. Manager, chef e operatori di sala ne sono consapevoli e sono disponibili a rilanciare il settore non rinunciando però a diritti, tutele contrattuali, tempo libero, formazione continua, cultura d’impresa.
Siamo certi che non mancheranno ulteriori spunti di riflessione per la prossima edizione del Festival.