Nel dicembre del 2020 Roberto Saviano è, esattamente come ora, lo scrittore italiano più noto all’estero, molto letto e stimato da ormai quindici anni. Nel dicembre del 2020 Giorgia Meloni è, diversamente da ora, all’opposizione del governo all’epoca in carica. Nel dicembre del 2020 Piazza pulita è, esattamente come ora, il programma più trash della tv italiana.
La prima domanda che viene quindi da farsi, di fronte allo scandalo collettivo di questi giorni, è: perché commentiamo il tutto come se la presidente del Consiglio avesse fatto causa a uno scrittore, invece d’indignarci perché la giustizia italiana ci mette talmente tanto tempo a imbastire la prima udienza d’un banale processo per diffamazione che in quel tempo una senza alcun incarico di governo fa in tempo a divenire presidente del Consiglio?
La seconda domanda attiene alla libertà d’espressione. Che è mio personale convincimento serva innanzitutto a tutelare gli inadeguati. Se Roberto Saviano scrive un articolato editoriale in cui ne dice di tutti i colori sul mio conto, è assai probabile che sia capace di costruirlo in modo che la sua prosa si difenda da sola. È l’inattrezzato culturale che mi dice «ambescìlle» che va tutelato nella sua libertà d’espressione.
Su questo non siamo tutti d’accordo, anzi: c’è tutt’un movimento culturale che disapprova che i social siano un grande sfogatoio su cui chiunque può dirti «ambescìlle», e che mai sottoscriverebbe la mia convinzione che quello sfogatoio sia utilissimo; ogni Vongola75 che scrive i suoi penzierini ostili è una Vongola75 che dopo si sente meglio e non mi aspetta armata sotto casa.
Epperò la più parte degli intellettuali italiani (e non solo italiani) dissente, ritenendo che le parole facciano male quanto una coltellata (si vede che non v’ha mai accoltellato nessuno).
Epperò Saviano, per aver a Piazza pulita detto «bastardi» all’indirizzo di Meloni e Salvini, viene difeso moltissimo da intellettuali che invece si spendono abitualmente molto contro quelle che chiamano «parole d’odio», e solitamente fanno (o minacciano) causa per ogni «ambescìlle». È un mondo vagamente schizofrenico, quello in cui il «Bastardi» di Saviano ha una dignità diversa dallo «Stia zitta» di Raffaele Morelli.
(No, il fatto che Saviano il «Bastardi» lo usi per arringare in difesa dei buoni – si parlava dei profughi che secondo la destra sono in gita di piacere – non può valere come distinzione: le regole non possono esistere per tutelare solo quelli che ci pare stiano dalla parte giusta, non sono certo io a dover spiegare a Saviano o a Michela Murgia che questo è il funzionamento delle dittature, e che in democrazia le regole salvaguardano chi non ci piace).
La terza domanda, alla quale ha già risposto Saviano, riguarda quelli che trasecolano: dove andremo a finire, si sa che non si denunciano gli scrittori, non si denunciano i giornali, non si denunciano neanche i programmi trash, se salta questa regola è barbarie; quelli secondo i quali dev’esserci una speciale immunità dalle accuse di diffamazione per i mezzi di comunicazione di massa, altrimenti addio libertà di stampa. Scusate, ma chi pensate pratichi eventuali diffamazioni? I baristi? I cardiochirurghi? Gli elettrauti? Se mi sento diffamata da un giornale cosa devo fare, se non chiedere a un tribunale di decidere se ho ragione?
Ha già risposto Saviano, dicendo che lui non discute lo strumento della querela, anche lui querelò Gasparri. Bene, e allora tutto lo scandalo di questi giorni a cosa serve? Gli scrittori che vanno a solidarizzare in tribunale contro uno strumento che lo stesso Saviano approva perché sono lì? Per richiedere una riforma che gestisca i processi in modo da aprirli e chiuderli prima che cambi il governo del paese e con esso i rapporti di forza, spererei – ma temo non sia così.
Mentre tutta l’Italia rispettabile, l’Italia dei giusti, l’Italia che sa che posizione prendere si sdegnava per la politica che fa causa a uno scrittore, per gli ingiusti che fanno causa ai giusti, Aboubakar Soumahoro pubblicava sui social la foto d’un articolo di Repubblica sulla sua famiglia con queste parole a commento: «Non c’entro niente con tutto questo. Non consentirò a nessuno di infangarmi. Chi ha deciso di farmi la guerra, con diffamazione, dico ci vediamo in tribunale. Ho dato mandato ai legali di perseguire penalmente chiunque, usando qualsiasi mezzo, offenda la mia reputazione».
Aboubakar Soumahoro è la politica, ma è anche uno dei giusti. Come la mettiamo? Era da «stai con Togliatti o con Vittorini» che non era così scivoloso posizionarsi: stai coi querelati o coi querelanti? Se, come Saviano, elevi un «bastardi» a «la libertà di critica» e a «gli intellettuali che decidono di smontare la sua narrazione» («sua» di Salvini), forse puoi anche elevare un «difendo gli amici miei e non una linea univoca» a posizionamento culturale.
Mentre l’Italia rispettabile decide come conciliare il posizionamento rispetto a Soumahoro e quello rispetto a Saviano, a me arriva una sentenza. Riguarda un articolo del giugno 2015 (sette anni e mezzo fa, se li conti in vite dei governi chissà che cifra viene). Uscì su un settimanale. Non so se per dolo o per distrazione, parlando d’un processo in cui ero coinvolta, l’articolista attribuì a me i traffici illeciti d’un altro imputato. Intentai una causa civile per diffamazione.
Sette anni e mezzo dopo, una giudice mi comunica che non ho diritto ad alcun risarcimento, «né può dolersi della impostazione palesemente colpevolista dell’articolo […] essendo ben noto che fatti di cronaca giudiziaria dividono la pubblica opinione ed i media tra veementi innocentisti e colpevolisti da tempo immemore (quantomeno dal 1700, ma particolarmente dall’inizio del secolo scorso)» (ah, pure storica).
Mentre leggevo questa splendida sentenza che citava precedenti secondo cui «il diritto di cronaca può comportare qualche sacrificio dell’accuratezza della verifica della verità del fatto narrato per esigenze di velocità» (ma è un settimanale, è un articolo scritto da una che fa la riposante vita di chi scrive un articolo a settimana, e ha una settimana per controllare chi ha detto cosa: con questo criterio, uno che pubblica su un sito domani può darmi della serial killer e va bene così); questa splendida sentenza che definisce l’attribuirmi l’intera corrispondenza altrui, con altrui toni e altrui intenzioni, come «un errore sostanzialmente irrilevante»; mentre mi cascava la mandibola su questo «liberi tutti di scrivere il cazzo che vi pare senza porvi il problema della verità» sancito da un tribunale, mi chiedevo in che paese vivo, dei due che vedo attorno a me.
Nel paese in cui il solo fatto di istruire un processo (in cui Saviano potrebbe benissimo essere assolto) è un attentato alla libertà intellettuale e tutti dovremo d’ora in poi censurarci e saranno tempi molto bui. O nel paese in cui non è richiesto neanche quel grado minimo d’aderenza alla realtà per cui, se Pippo ha detto «t’ammazzo», è bene non scrivere su un giornale Topolino, due punti aperte virgolette, t’ammazzo.
Confesso di preferire il primo, di paese. Confesso che non mi sembra tanto malvagia l’idea che chi ha la responsabilità di parole pubbliche venga invitato, dalla giurisprudenza e dalla società civile, a soppesarle. Confesso che mi sembra assai peggio il paese in cui un giudice dice sì, vabbè, Topoli’, quante storie: è dal 1700 che si sa che non bisogna formalizzarsi.