«L’orto botanico di Padova è all’origine di tutti gli orti botanici del mondo e rappresenta la culla della scienza, degli scambi scientifici e della comprensione delle relazioni tra la natura e la cultura». L’Unesco parla così di questo prezioso locus amoenus – il più antico tra i giardini botanici di tutto il mondo occidentale, parte dell’Università di Padova -, quando, nel 1997, ne motiva l’ingresso nella lista dei patrimoni dell’umanità come bene culturale.
Gli architetti del Rinascimento italiano gli diedero una forma enigmatica: si tratta di una struttura circolare con un quadrato inscritto, una rappresentazione densa di simboli filosofici e astrologici. E lo chiamarono, fin da subito, giardino dei semplici, per via dell’uso di coltivare le piante medicinali più elementari, da usare da sole, anziché miscelate con altri medicamenti.
Grazie al prestigio internazionale della vicina Venezia, l’orto venne arricchito di sementi provenienti dai luoghi più remoti. In questo modo, nel corso del tempo, divenne uno straordinario archivio del mondo vegetale, un volano per il progresso di moltissime scienze, tra cui botanica, medicina, farmacia e chimica. Un luogo così misterioso e particolare, ancora intatto nel suo disegno originario con più di cinque secoli di vita alle spalle, profuma come un tartufo per gli artisti in perenne ricerca di nuova ispirazione. Non è una sorpresa infatti che abbia destato l’interesse di uno dei maggiori maestri della fotografia italiana contemporanea, Vincenzo Castella.
Da questo incontro è nata una piccola perla. In collaborazione con Hermès – che fa un bellissimo regalo alla città di Padova – è uscito un nuovo libro edito da Silvana Editoriale e realizzato, appunto, da Castella, le cui foto sono accompagnate dal testo del critico d’arte Salvatore Lacagnina. Per chi vorrà recarsi in loco, una selezione di quaranta immagini tratte da “Il libro di Padova” sarà inoltre esposta presso l’Orto botanico nell’ambito di una mostra aperta al pubblico dall’11 novembre 2022 all’8 gennaio 2023.
«Padova città d’acque, ricca di storia e di preziose testimonianze artistiche e monumentali, ma anche città-giardino – spiega a Linkiesta Eccetera Francesca di Carrobio, amministratore delegato di Hermès Italia – Per renderle omaggio abbiamo invitato l’artista Vincenzo Castella a raccontarla attraverso immagini di grande forza espressiva».
Castella non solo ha saputo fotografare il genius loci che si nascondeva nel verde delle piante, nel grigio delle rocce, nel marrone delle architetture delle chiese, ma ha trovato l’umanità anche là dove non c’era. L’identità dell’opera fotografica si disvela attraverso quattro temi principali, in un percorso in cui l’arte incrocia la natura e la realtà sconfina nel sogno: “l’orto botanico” o più in generale il mondo vegetale; “la pittura”, principalmente gli affreschi e le decorazioni conservati nelle chiese e nei palazzi; “l’architettura”, rappresentata come spazi e luoghi, e infine “l’Università”, una delle più antiche del mondo.
Nato a Napoli nel 1952, ma residente a Milano da molti anni, Castella fu uno dei più giovani fotografi invitati, nel 1984, da Luigi Ghirri a partecipare a “Viaggio in Italia”. Un lavoro considerato dalla critica un turning point per la fotografia artistica del nostro Paese. Praticamente la bibbia del movimento della “Nuova fotografia italiana”. E da Ghirri infatti imparò moltissimo. Silenzio, rigore e semplicità, prima di tutto. Ma anche simbolismo, malinconia, e l’instancabile fede nell’idea che l’iconicità di un momento impresso nella pellicola sia in grado di raccontare il consorzio umano meglio di un trattato di sociologia.
A cavallo tra gli anni Settanta e Ottanta, l’obiettivo di Castella si posa su paesaggi urbani, interni di case o negozi, zone industriali e squarci di rovine archeologiche. Tutto questo con un atteggiamento indagatore che tradisce la sua formazione di antropologo, ma con uno sguardo inedito sul mondo e sulla società, curioso e mai presuntuoso. «Bisogna fare le domande. Se conosci già le risposte, non fai fotografia», disse una volta.
La lente focale di Castella non ha mai flirtato con la bellezza ostentata, né mai si è fatta abbindolare dalle pose plastiche. Possiede invece un un certo fiuto per l’inconscio e la psicologia dei paesaggi sgombri e desolati. Luoghi dell’anima che sublimano il banale in attimi di un’eloquenza sovrumana.
Sono passati quasi quarant’anni dall’esperienza cruciale insieme a Ghirri e Castella ha smesso i panni della giovane promessa per indossare quelli del maestro. Qui, a Padova, Castella mette in moto la sua macchina di ricerca spirituale sempre con la consueta attenzione priva di retorica verso un paesaggio sconosciuto all’immaginario collettivo. Uno sguardo che cerca l’uomo, e trova la sua assenza. Forse perché si è perso, se ne andato, ma di sicuro è stato in questi luoghi. Così le foto si limitano a seguirne le tracce, il passaggio, l’operato, la memoria. Indagando l’umano senza il bisogno di doverlo interpellare Castella lo scopre ovunque, dietro un’aiuola, una colonna, un viale alberato o i vetri di una serra. Le vestigia di un’eredità immutabile.
L’artista portata avanti una riflessione che riguarda specialmente la natura: «Sono attratto dal colore verde, un colore non bello, ambiguo, ma che ti dà la sensazione di capire qualcosa di più. Non penso sia un caso che, nella cultura popolare, rappresenti la speranza» racconta il fotografo. Sono fotografie ravvicinate, realizzate con obiettivi ottocenteschi, in cui la messa a fuoco non è uniforme. L’effetto è pittorico, ormai lontano dalla precisione chirurgica di alcuni esperimenti del passato. Sono fotografie sfuggenti che danno l’impressione di essere state realizzate in ambienti selvaggi. Solo l’immaginario di un veggente o di un folle può trasformare un orto, in una radura, terreno di caccia dell’uomo primitivo.
«La natura che parla alla macchina fotografica è diversa da quella che parla all’occhio – diceva Walter Benjamin in “Piccola storia della fotografia” -. Anzitutto perché a uno spazio intessuto consapevolmente dall’uomo ne subentra uno elaborato inconsciamente. Solo la fotografia è in grado di rilevare l’inconscio ottico, così come la psicoanalisi rileva l’inconscio pulsionale». Una lezione profondamente interiorizzata dal fotografo napoletano. Nel materiale presente si svelano aspetti fisiognomici e mondi visivi a livello microscopico, intuibili, ma nascosti abbastanza da aver trovato rifugio solo nei sogni a occhi aperti. L’atmosfera sospesa e desolata mostra piante e architetture nel loro aspetto più intimo, più umano (se volete) palesando negli steli forme di antichissime colonne, nella felce il bastone pastorale, nei germogli certi alberi totemici.
Il risultato finale di questo lavoro è una fotografia atemporale che potrebbe essere stata scattata in qualunque momento della storia secolare dell’orto botanico, e della città veneta. Nella fotografia di Castella, l’uomo è natura e la natura si fa uomo in un’unione panica del sentimento e della psicologia. La piante, ma anche l’architettura – da recuperare il bellissimo “Geografia privata”, tra i capolavori dell’autore” – vive e sente come noi. Ma per dischiudere un segreto di tale portata servono una strabiliante sensibilità e molta pazienza. D’altronde ogni scatto sembra aver richiesto al suo autore ore e ore di attesa, forse anni, forse ere di ascolto. In religioso silenzio.