Riflessi nel tempoLo specchio è il protagonista del rapporto con noi stessi (e con l’arte)

Oggi, questo oggetto dalla superficie riflettente è un’estensione dei canoni di bellezza che, dal mondo della moda, è giunto fin dentro gli appartamenti, imponendo un’autopercezione impietosa e dominante. Tra i pittori, però, era considerato strumento di conoscenza, che doveva portare al di là della soglia del puro apparire

Il bar delle Folies-Bergère, Édouard Manet

«Quando tua figlia | ti chiederà se è bella | il tuo cuore si infrangerà come un calice | sul pavimento di legno | una parte di te vorrà dire | certo che lo sei, non dubitarne mai | e l’altra parte | la parte che ti sta | dilaniando | ti chiederà di afferrarla per le spalle | di guardarla nei pozzi | che sono i suoi occhi finché non rispecchieranno i tuoi | e di dire | non devi esserlo se non lo vuoi | non è il tuo lavoro», recita una poesia di Caitlyn Siehl.

«Non ci siamo mai specchiati tanto come adesso. Tra quelli fisici e gli specchi digitali (i selfie che scattiamo, modifichiamo e postiamo ogni giorno) controlliamo e giudichiamo ogni dettaglio del nostro corpo. Non è sempre stato così. E non per tutti: anche oggi ci sono popolazioni al di fuori della società dei consumi, come i Masai che vivono all’interno delle più remote savane o sui monti tra Kenya e Tanzania, che ignorano l’uso dello specchio», spiega invece Maura Gancitano, filosofa e autrice del saggio “Specchio delle mie brame. La prigione della bellezza” (Einaudi).

Il riferimento ai consumi è dovuto: come “strumento di massa”, lo specchio e il mobile-specchio (che – per la prima volta – permette di vedersi a figura intera) è un’invenzione ottocentesca, nata con la rivoluzione industriale, l’industria dell’arredamento, i primi Grandi Magazzini, i cataloghi di moda e i giornali.

Cominciano così a diffondersi anche precisi canoni di bellezza. E nascono le taglie, la convenzione che racchiude il corpo in un numero. «Nei reparti uomo dei primi Grandi Magazzini sorti nell’Ottocento negli Stati Uniti, i clienti potevano scegliere all’interno di quarantacinque combinazioni possibili tra misure e forme fisiche. Poi, per semplificare, si passa a tre macro taglie che i servizi di sartoria interni avevano il compito di adattare alle figure dei clienti, finché si arriva alle cinque, sei taglie di oggi che, pur con differenze tra Europa e America, permettono di vendere lo stesso capo d’abbigliamento in tutto il mondo. Si tratta quindi di convenzioni, misure standard, eppure, quando nel camerino ci accorgiamo che qualcosa non ci sta bene, la prima cosa che pensiamo è che a essere sbagliato sia il nostro corpo. È la prigione della bellezza».

Paolo Mussat di Giuseppe Penone

Una storia di duecento anni, dunque, non fosse che i social – amplificando la pressione sociale – hanno anche amplificato il disagio e il senso di vergogna per non avere un corpo perfetto o eternamente giovane. «Inutile sminuirne il ruolo: lo specchio è importantissimo nella definizione della nostra identità fisica e nell’interiorizzazione della differenza tra corpi “giusti” e corpi “sbagliati”. Un insegnamento che passa dal dovere di depilarsi a quello di dimagrire o di non invecchiare. Così gli obiettivi, buoni propositi e buone abitudini che sono basate sulla triade peccato (bruttezza) – redenzione (cura) – salvezza sono il nuovo dovere sociale, che ormai riguarda donne e uomini. Il passo dall’oggettivazione sociale all’autoggettivazione è breve».

In arte invece lo specchio è stato strumento di conoscenza. Per Brunelleschi che lo utilizza per trovare il punto di fuga perfetto per disegnare la cupola di Santa Maria del Fiore, per Leonardo da Vinci che ne teorizza l’uso come strumento per cogliere la natura e “tutto il reale”, o per i vedutisti veneziani che lo utilizzano nelle camere ottiche.

«E nel Seicento, diventa anche il protagonista di una serie di opere, come la celeberrima “Las Meninas” di Velasquez» racconta lo storico dell’arte Flavio Caroli. «Dove lo specchio sullo sfondo è la rappresentazione più nitida di tutte le rappresentazioni presenti nel quadro, ma nessuno lo guarda. Eppure è lo specchio a svelare il soggetto invisibile che tutti i personaggi stanno guardando: il pittore. Che, guarda caso, coincide con l’osservatore».

Catalogo Magazzini Bocconi, Milano

Gioco di sguardi e di riflessi, dunque, come nel “Narciso” di Caravaggio che quasi sicuramente ha avuto origine da uno specchio in cui l’autore faceva da modello a se stesso, con abilità (e ripensamenti), per ottenere un riflesso dal basso che equivale a una soggettiva cinematografica.

«Ma è in età moderna che lo specchio diventa il protagonista. Un’opera su tutte: “Il bar delle Folies-Bergère” di Manet. Dipinto nel 1881, ritrae Suzon, la giovane barista dietro al bancone con aria assorta e malinconica, ma è l’enorme specchio alle sue spalle che – riflettendo l’animazione del locale, con i clienti ai tavolini, i trapezisti, le signorine che intrattengono i clienti – ci narra una storia come in un fermo immagine».

Un legame, quella tra l’arte e lo specchio, che continua anche nel surrealismo e nei movimenti degli anni Sessanta, impossibile ripercorrerli tutti. E se tutti conosciamo le lastre specchianti di Michelangelo di Pistoletto che, negli anni Sessanta, utilizza l’artificio del riflesso per portare lo spettatore oltre la soglia dell’essere e dell’apparire, del passato e del futuro, c’è un artista che va un passo più in là. È Giuseppe Penone che, con “Rovesciare i propri occhi”, indossa delle lenti a contatto specchianti che lo rendono cieco e, allo stesso tempo, mostrano al mondo il riflesso di ciò che l’artista guarda. Un piccolo gesto, e la fisica del visibile (i corpi, la materia) si incontra con la metafisica dell’invisibile, dell’interiore, dello spirituale.

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