Icona piemontese ma cittadino del mondo, amato dai re e dagli imperatori, da Luigi XIV a Maria Luisa d’Austria a Napoleone, il grissino, malgrado la sua fama e il suo diffuso apprezzamento, potrebbe rischiare l’estinzione, o almeno l’esilio dai cestini del pane nei ristoranti.
La specialità torinese a cui negli Stati Uniti hanno dedicato anche una festa, il Breadstick day, aveva, fino al 2019, gloriose prospettive: si stimavano per il 2026 3,6 miliardi di dollari sul mercato americano, e in Italia la richiesta di farina di grano tenero era cresciuta di seimila tonnellate. Da allora, però, secondo i dati di Vitavigor (che per l’occasione ha anche coniato l’hashtag #savethegrissino) nella ristorazione le vendite sono diminuite del 50%. Colpa della pandemia, con tutte le sue conseguenze economiche e sociali e colpa, soprattutto, dell’aumento dei costi delle materie prime che ha portato, tra il 2021 e il 2022, a un aumento del +2,3% del prezzo medio al kg dei grissini e addirittura del +13,9%, anno su anno.
Colpa anche un po’, pare, dei consumatori che al ristorante aprono le piccole confezioni monodose, piluccano e lasciano tutto aperto e spezzettato, spingendo i ristoratori a eliminare, semplicemente il problema e il costo. Solo in certi ristoranti, soprattutto in Piemonte, si trovano ancora i fasci di grissini avvolti in un tovagliolo candido, artigianali, abbondanti e senza involucri plasticosi.
Del resto, in Piemonte, alla corte dei Savoia, nel 1679, nasce il prodotto che prende il nome da un diminutivo dalla parola piemontese grissia, che indica un grande pane di forma allungata. Secondo la tradizione, fu il fornaio della corte sabauda Antonio Brunero a inventarli, su suggerimento del medico reale, per fornire la giusta dose di farinacei al giovanissimo Vittorio Amedeo II, che non digeriva la mollica del pane.
In effetti nei “ghersin”, ieri come oggi, non c’è traccia di mollica, anche se la ricetta si è un po’ sveltita rispetto a quella originale che prevedeva l’intervento di ben quattro lavoranti. Fatto l’impasto, infatti, che è poi quello classico del pane – acqua, farina 00, lievito e un pizzico di sale – un addetto si occupava di stirare l’impasto e un altro di tagliare la pasta in pezzi di circa tre centimetri. Il tutto passava al fornaio che la metteva a cuocere su una paletta stretta e lunga, che poteva arrivare anche a quattro metri. L’ultimo passo della lavorazione spettava a un addetto che aveva il compito di estrarre i bastoncini dal forno e di spezzarli in due.
C’è un racconto più plebeo della loro nascita, che parte dalla povertà invece che dall’abbondanza. In questa versione, in tempi di carestia, i grissini nacquero quasi spontaneamente da “grissie” sempre meno ricche di farina e di lievito, fino ad acquistare vita autonoma. C’è chi sostiene, poi, che non di carestia si trattasse, ma di avidità dei panificatori che trovarono così il modo di produrre di più usando meno impasto.
In ogni caso, leggeri, digeribili, di facile conservazione, i grissini conquistarono in fretta le tavole di tutti e dilagarono nelle altre regioni. Grazie alla loro versatilità si potevano (e si possono) mangiare a colazione inzuppati nel latte, o a pranzo nel brodo (come faceva Maria Luisa d’Austria) o a ogni ora come snack. Ebbero, fin dalle origini, una versione dolce, ed esiste un’antica ricetta di frittelle preparate con grissini schiacciati, latte e uova. Oggi le varianti sono infinite, dalle olive, alle noci, al sesamo, all’origano, al cioccolato, ma
resta ben salda la partizione canonica: c’è il “grissino stirato” e c’è il “rubatà”.
Per il primo, e più recente, la pasta, invece di essere lavorata manualmente per arrotolamento e leggero schiacciamento, viene allungata tendendola dai lembi per la lunghezza delle braccia del panificatore, e questo conferisce maggiore friabilità al prodotto finale. Soprattutto questo tipo di lavorazione permise la produzione meccanizzata già a partire dal XVIII secolo.
La forma più antica, rubatà, ovvero rotolata, parte da un grissino lungo dai 40 agli 80 centimetri, che veniva arrotolato a mano e spezzato. Nato (forse) a corte, di certo il grissino è stato a lungo associato ai regnanti sabaudi. Il re Carlo Felice pare sgranocchiasse grissini nel suo palco al Teatro Regio infischiandosene
dell’etichetta e irritando oltremodo il pubblico. Ma tant’è, era una passione di famiglia se Maria Felicita di Savoia si meritò il nomignolo di “principessa del grissino” grazie a un suo ritratto dove lo porgeva premurosamente a un cane.
A suggello di tanto amore a Torino, nella base dell’obelisco di piazza Savoia, posto il 7 maggio 1853, furono murati alcuni oggetti dotati di un importante valore simbolico: una copia della Legge Siccardi, due numeri della “Gazzetta del Popolo”, alcune monete, un sacchetto di riso, una bottiglia di barbera e una cassetta di grissini.
Tra i cugini d’Oltralpe si segnalano Luigi XIV in Francia che, nella sua bulimia accaparratrice, si dice avesse fatto arrivare a Parigi appositamente due fornai torinesi. Ne restò deluso, però perché, vuoi l’acqua, vuoi il clima, i risultati non furono dei migliori. Napoleone, più accorto, si faceva portare a domicilio in versione originale “les petits bâton de Turin” dovunque si trovasse. Oggi i “grissini stirati torinesi” sono anche una tradizione milanese ma non finisce qui.
Siano una gemmazione del prodotto originario o un’evoluzione parallela, i grissini sono famosi e amati anche in Friuli, che annovera tra i suoi prodotti tipici il Grissino friabile e il Grissino aromatizzato della zona montana delle Valli Giulie, entrambi di frumento; il grissino di Resiutta, decisamente “rubatà”, il Grissino di mais nella zona di pianura Terre Manin e il Grissino misto mais della zona pedemontana.
Queste varietà, note come grispolenta, fanno parte della tradizione contadina della Carnia, sono impastati con lo strutto e sono usati soprattutto come spuntino. Al Friuli spetta anche il record del grissino più lungo del mondo: un filone della misura di 116,55 metri realizzato con un impasto da oltre 100 kg dopo una lunga preparazione a cui hanno lavorato più di quaranta persone, certificato l’11 maggio 2019.
Un appello per la tutela e il consumo dei grissini arriva dal panificatore torinese Luca Scarcella: «I grissini sono semplici, richiedono veramente pochissimi ingredienti, durano più del pane e possono essere facilmente riutilizzati. Queste caratteristiche ne fanno un prodotto sostenibile e dal bassissimo impatto ambientale in termini di spreco».
Da scoprire poi, o da riscoprire, i tanti utilizzi degli avanzi, che possono essere impiegati nella preparazione dei primi piatti in cui è prevista la mollica di pane raffermo, come i sempre attuali “spaghetti, acciughe e mollica” o per la famosa cotoletta impanata nei grissini dello chef Marco Sacco, ideale replica torinese della classica “milanese”.