La dittatura degli offesiQui non siamo in Iran, una risata non ci seppellirà

Al contrario delle ragazze iraniane, se mia nonna avesse violato i precetti di una società retriva avrebbe rischiato dei pettegolezzi, non di morire. Ma è una differenza difficile da far capire a chi è cresciuto con l’idea che se qualcuno ride di te è come se ti uccidesse

LaPresse

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All’inizio di “Sapore di mare”, i carabinieri prelevano una donna stesa a prendere il sole senza reggiseno. «Son mica una delinquente, gli è la moda in tutto il mondo», protesta la villeggiante di Forte dei Marmi. «È oltraggio al pubblico pudore», ribadiscono le forze dell’ordine con accento meridionale. La turista inglese chiede perché arrestino la donna in topless, e Christian De Sica risponde: perché questo è un Paese di scemi. È l’Italia del 1964 raccontata dai Vanzina negli anni Ottanta: quando il film esce, Carlo Vanzina ha trentadue anni, e come ogni trentenne è convinto di vivere in un universo in confronto al quale quello di vent’anni prima era terribilmente arretrato.

Figuriamoci quello di quarant’anni prima; una ventenne o una trentenne di oggi, guardando “Sapore di mare”, lo troverebbero inaccettabilmente sessista e pieno di cliché patriarcali: la ragazza del sud che cerca marito, lo sciupafemmine del nord, l’inglesina dai facili costumi, la quarantenne percepita come una per cui è tutto finito. La ventenne e la trentenne che vivono oggi in Italia non vengono arrestate se prendono il sole senza reggiseno, nessuno si aspetta che cerchino marito, e leggono da tutta la vita che la vita comincia a quarant’anni – anzi, a cinquanta.

Tuttavia, neppure allora, neppure in un’Italia che considerava ancora lo stupro un oltraggio alla morale pubblica e non un reato contro la persona, neppure negli anni Sessanta i costumi erano prescrittivi come ci fa narrativamente comodo ricordarli. Nel 1968, due anni dopo il processo di Franca Viola, l’idea della ragazza disonorata che deve farsi sposare era già materiale su cui fare satira sociale: “La ragazza con la pistola” racconta l’emancipazione di Monica Vitti, da siciliana in nero che si aggrappa ad Aldo Giuffré giurandogli «tua sono, e con me ti porterò fino alla tomba» a ragazza della Swinging London.

Il punto che abbiamo perso di vista, in questo Occidente del Ventunesimo secolo in cui ci possiamo concedere il lusso di badare agli orpelli avendo sistemato l’essenziale, è che la differenza la fa la portata delle conseguenze. Alla bagnante di Sapore di mare avranno fatto una multa. A Monica Vitti disonorata da Giuffré sarebbe toccata la disapprovazione delle comari. Nell’arretrata Italia di sessant’anni fa, non c’era comunque la polizia morale, le donne disubbidienti non rischiavano comunque la vita.

Qualche anno fa ho scritto un libro sulla dittatura degli chef (uno dei lussi dell’Occidente del Ventiduesimo secolo: chiamare «dittatura» qualunque tic sociale pervasivo ma innocuo). Raccontavo di mia nonna che tutta la vita aveva cucinato, e di mia madre che si sentiva emancipata a farmi vivere di surgelati. Il libro fu recensito, tra gli altri, da uno dei migliori intellettuali italiani, che scrisse che io però tralasciavo il fatto che mia nonna non potesse permettersi di non cucinare, sennò probabilmente il marito l’avrebbe riempita di botte.

Solo che non era così. Mia nonna era rimasta vedova nel 1950. Aveva dei fratelli, ma non è che vigilassero più di tanto: vivevano altrove. I figli vennero mandati in collegio, e poi all’università a cinquecento chilometri di distanza. Era sola, poteva fare ciò che voleva: avviare una relazione omosessuale con una cameriera, risposarsi col postino, diventare l’amante del prete. Scelse di non uscire più di casa e di non togliere il lutto mai più. Usciva solo la mattina all’alba per andare a messa, tornava, e cucinava tutto il giorno. Passava qualcuno, e lei lo sfamava.

Era una scelta? Era un condizionamento culturale? Non era un’imposizione di legge, e mi pare faccia tutta la differenza del mondo. Nessuna polizia morale le ingiungeva di cucinare, di portare il lutto, di dire il rosario, di dormire con l’altare di padre Pio di fianco al letto. Non ci avrebbe rimesso la vita, se avesse deciso di non ottemperare ai precetti della società in cui viveva: al massimo le comari avrebbero spettegolato.

È una differenza difficile da far capire a generazioni per le quali l’idea che qualcuno rida di te è atroce quanto quella che qualcuno ti uccida, ma è la differenza che vale la pena di sbattersi a cercare di spiegare: non cercate l’approvazione delle amiche, ragazze; cercate di garantirvi il diritto a non veder evolvere la disapprovazione in divieto.

(Non avrei affidato a mia nonna un governo più di quanto lo affiderei agli ayatollah. Se pensi esista un essere invisibile che ti ha dato degli ordini, siano essi non fornicare o non mangiare il maiale, a mio giudizio non sei abbastanza istruito o equilibrato neanche per fare l’amministratore di condominio. È la ragione per cui, nell’Occidente emancipato, ripetiamo compìti «non che ci sia niente di male a essere credenti» quando elenchiamo le fisime religiose di qualche figura istituzionale, ma ci guardiamo bene dall’affidare formalmente il governo alle gerarchie ecclesiastiche).

Ripensavo a mia nonna guardando il video di Gohar Eshghi, che le somiglia perché le vecchie vestite di nero si somigliano tutte. Mia nonna diceva che il lutto non se l’era più tolto perché quando era morto suo marito la sua vita era finita, Gohar fa del lutto una militanza: dieci anni fa hanno ucciso suo figlio; Sattar Beheshti era un giornalista, l’hanno arrestato – e all’inizio di novembre del 2012 è morto in carcere – per aver scritto che l’Iran non era una nazione ma un mattatoio. Quando le donne iraniane hanno cominciato a scoprirsi i capelli, in un contesto in cui scoprirsi i capelli può farti finire ammazzata più velocemente che se scrivessi di abitare in un mattatoio, l’ottuagenaria Gohar si è scoperta il capo davanti a una telecamera, continuando a tenere stretta una foto del figlio morto. Dicono che sia una storia vera, ma è facile che tra un attimo venga fuori che il video è invece d’una comparsa (diretta da Stanley Kubrick sul set già usato per l’allunaggio); ma non è importante, perché funziona come simbolo, come gesto dimostrativo, come tutto quel che in Occidente non riusciamo a capire perché al massimo abbiamo preso una multa per aver lanciato della passata di pomodoro su un quadro. Funziona come squarcio su una realtà che ci è così aliena da essere terrorizzante. Vediamo le foto delle ragazze in minigonna nella Persia degli anni Sessanta, e ci chiediamo: ma quindi potrebbe succedere anche da noi? Tra sessant’anni potrebbe anche qui essere prescrittivo coprirsi i capelli, o portare il lutto, o cucinare? Che ne è delle magnifiche sorti e progressive? Si può tornare indietro? E a parte avere paura per noi e tentare goffamente di solidarizzare con loro tagliandoci le doppie punte – due attività parimenti sceme – che possiamo fare, noi nate nella parte fortunata del mondo?

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