Il Partito democratico è stato dato per morto infinite volte, da prima ancora di nascere. Questa però potrebbe essere la volta buona.
La riunione dell’associazione «i Popolari» organizzata ieri da Pierluigi Castagnetti nella sede dell’Istituto Sturzo ha detto fondamentalmente che il re è nudo, che il risultato elettorale non può essere archiviato come una mezza vittoria (oscillando tra il giudizio «non catastrofico» di Enrico Letta e il «non disastroso» di Andrea Orlando) e che qualche spiegazione in più bisognerà darla anche su quanto emerso riguardo all’influenza del Qatar sul Parlamento europeo. Ma soprattutto ha demolito la bizzarra idea di un gruppo dirigente sconfitto che si autoincarica di riscrivere la carta fondamentale del partito e addirittura di rifondarlo, non dopo un legittimo confronto congressuale, ma prima. Un po’ come se la coalizione battuta nelle urne pretendesse di riscrivere la Costituzione prima di cedere il passo ai vincitori.
Il Partito democratico è nato, su impulso di Romano Prodi, da una decisione presa dal gruppo dirigente dei Democratici di Sinistra e da quello della Margherita, e in particolare della componente della Margherita più forte e organizzata, proveniente dal Partito popolare. La stessa scelta di tornare a riunirsi oggi come popolari – seguita per di più dalla conferma delle voci circa il ritorno in edicola del Popolo, che potrebbe così affiancare la resurrezione dell’Unità – segnala di per sé l’apertura di una crepa vistosa. A scanso di equivoci, Castagnetti lo ha detto apertamente, dopo avere ricordato il modo in cui il Partito democratico è stato fondato: «Se si cambia questa natura, cambia il partito, e chi lo fa se ne assume la responsabilità».
Il punto è il tentativo di riscrivere la carta dei valori da parte di un pletorico comitato di ottantacinque dirigenti e personalità variamente assortite, scelte da Letta e dal gruppo dirigente uscente, che «non ha avuto un mandato congressuale che lo legittimasse a farlo». La forma è sostanza, dice giustamente Castagnetti. Evidentemente, se l’operazione lanciata da Letta con questa singolare fase costituente dovesse andare fino in fondo, la rottura sarebbe inevitabile.
Dal 2003, quando l’idea di un partito unitario dei riformisti venne lanciata, al 2007, quando nacque ufficialmente, non si contano gli articoli pubblicati sul fallimento della «fusione fredda» (come la chiamavano i nemici, compresi quelli che un minuto dopo la nascita se ne sarebbero attribuita la paternità). Almeno altrettanti ne sono stati scritti dal 2007 a oggi sull’«amalgama malriuscito» (come lo definì Massimo D’Alema, sia pure in forma dubitativa, nella prima di una lunga serie di dichiarazioni ai limiti del disconoscimento di paternità).
Nella maggior parte dei casi, si trattava di profezie interessate, formulate da chi si sentiva emarginato dall’operazione e reagiva dicendo che il progetto era acerbo (nel primo caso), o se ne era sentito defraudato dopo, e reagiva dicendo che era marcio (nel secondo caso). Profezie tanto interessate quanto infondate, come il seguito della vicenda ha puntualmente dimostrato. Non solo perché il Pd ha continuato a vivere, e non se l’è passata neanche tanto male, avendo governato tutto il governabile per gran parte degli ultimi quindici anni. Ma anche perché non si può dire lo stesso delle formazioni messe in piedi dai suoi critici, dall’Api di Francesco Rutelli ad Articolo Uno di Pier Luigi Bersani, fino a Italia Viva di Matteo Renzi.
È vero che Bersani e D’Alema hanno avuto l’intelligenza di non presentare mai la loro creatura da sola al giudizio degli elettori, ma hanno fatto comunque il 3,3 per cento in lista con Sinistra italiana nel 2018 (nel 2013, senza di loro, Sel aveva preso il 3,2), e il 19,1 nel 2022 in lista con il Partito democratico (che alle elezioni precedenti, senza di loro, aveva preso il 18,7).
È abbastanza singolare, e non spiegabile con le categorie della politica, che oggi sia proprio Letta, già vicesegretario di Franco Marini nel Partito popolare, a tentare l’ultimo colpo di mano per riscrivere la costituzione del Pd insieme con gli ex fuoriusciti di Articolo Uno, accreditando una svolta a sinistra, neosocialista e neoradicale, che ha un’unica ragion d’essere: far dimenticare che è l’ala sinistra ad aver vinto l’ultimo congresso, nel 2019, e ad avere dunque la responsabilità di tutte le scelte compiute da allora, e dei relativi risultati. A cominciare dall’ultimo, disastroso, risultato elettorale.
L’improvvisa esigenza di sradicare il neoliberismo dal mondo e tornare al socialismo, infatti, non coincide solo con il passaggio del Pd dal governo all’opposizione (già di per sé un tempismo piuttosto sospetto), ma anche con il desiderio di fare una campagna congressuale da opposizione dentro il partito, liberandosi da ogni passata responsabilità.
L’iniziativa di ieri dice che la svolta pseudo-socialista porterebbe alla fuoriuscita dei popolari e alla fine del Pd, perché cambierebbe la sua natura, tradendo il patto costituzionale su cui è stato fondato (l’accordo tra «socialisti e democratici» che ha dato un nuovo nome allo stesso gruppo socialista del Parlamento europeo). E la cosa più triste è che il Pd non sarebbe neanche vittima di un omicidio doloso, ma soltanto l’effetto collaterale di un gioco di riposizionamento tutto interno al gruppo dirigente, che pur di salvare se stesso non esiterebbe a demolire la casa comune.