Spezzare l’impunità Gli ucraini non chiedono premi, ma di condannare Putin per i suoi crimini di guerra

Per fermare le atrocità dei russi servono le armi, ricordano i rappresentanti degli eroici cittadini a cui l’Europarlamento ha assegnato il Premio Sakharov. L’unica pace possibile passa dalla giustizia spiegano agli eurdeputati. Dal nostro inviato a Strasburgo

Danni della guerra a Bakhmut, Ucraina
Foto: Andriy Andriyenko/AP

In Ucraina i russi hanno commesso ventisettemila episodi di crimini di guerra. Ventisettemila. Quelli noti, spiega il Center for Civil Liberties, «sono solo la punta dell’iceberg». Il conteggio comincia dal 24 febbraio 2022, ma va inserito dentro un bilancio che parte da un altro febbraio. Dal 2014, dall’attacco alla Crimea. L’Europarlamento ha conferito il Premio Sakharov per la Libertà di pensiero al coraggioso popolo ucraino. I suoi rappresentanti, a Strasburgo per la cerimonia, raccontano lo sforzo per sminare i territori riconquistati. Le loro voci testimoniano che l’unica pace possibile è una pace giusta: non un compromesso, non un conflitto congelato, ma l’incriminazione di Vladimir Putin. Fino ad allora, servono le armi per fermare le atrocità.

L’Europa è sotto attacco nei suoi valori fondamentali. Lo ricorda il presidente della commissione Affari esteri, il tedesco David McAllister. «Dobbiamo continuare a dare all’Ucraina tutto il sostegno di cui ha bisogno, per tutto il tempo necessario – chiarisce McAllister –. Gli ucraini non combattono solo per la loro integrità territoriale, difendono la democrazia e la libertà del nostro intero continente».

L’obiettivo di Center for Civil Liberties è registrare ogni violazione in ogni oblast, in ogni villaggio. Il fascicolo arriverà al Tribunale penale internazionale dell’Aja. «Lavoriamo in circostanze dove la legge non funziona», dice la presidente Oleksandra Matviychuk. Le truppe russe impiegano il terrorismo come tattica bellica. Oltre la convenzione di Ginevra, l’avvocatessa parla di «dolore umano», qualcosa di più e diverso da una statistica. Scuole e ospedali bombardati, deportazioni di massa, rapimenti, stupri. «La guerra ha trasformato le vite in numeri, solo la giustizia può restituire i nomi e la dignità».

Oleksandra Matviychuk
Oleksandra Matviychuk, foto Parlamento europeo

La storia di una famiglia, esempio di troppe altre vicende simili. Fuggono da Kyjiv per scampare ai missili nei primi giorni di un genocidio derubricato dal Cremlino a «operazione militare speciale». Vanno salvate le vite dei bambini. Ma i russi colpiscono anche la città dove si sono spostati, muore la loro figlioletta di pochi anni. Non sono crimini nuovi, ci sono precedenti. È la striscia di sangue dell’esercito regolare e di quello privato, i mercenari della Wagner. Cecenia, Georgia, Libia, Moldavia, Mali. «Non sono mai stati puniti, è diventata cultura per loro. Pensano di poter fare quello che vogliono, dobbiamo spezzare il circolo dell’impunità».

Non è pacifismo quello che contempla una resa. Nessuno vuole la pace più degli ucraini, ammonisce Matviychuk, perché sono loro a venire uccisi ogni giorno. «Non ci sarà una pace sostenibile senza giustizia – conclude –. Dobbiamo smettere di considerare una buona soluzione un conflitto congelato o un compromesso politico. Abbiamo bisogno di armi, questa è la verità. Non dobbiamo solo perseguire chi ha commesso atrocità, dobbiamo fermarlo e per ora non abbiamo strumenti legali per liberare i prigionieri. Abbiamo bisogno di assistenza militare».

I rappresentanti del popolo ucraino al Parlamento europeo
I rappresentanti del popolo ucraino al Parlamento europeo

Il sindaco di Melitopol, Ivan Fedorov, è stato rapito perché si era rifiutato di collaborare con gli invasori. I russi volevano dimostrare agli abitanti il destino che sarebbe stato inflitto a tutti. La sua città è ancora sotto occupazione. Gli anziani sono abbandonati a loro stessi. Nelle scuole le lezioni sono cancellate, impera la propaganda. I bimbi sono costretti a cantare canzoni sovietiche, a disegnare per i soldati nemici. Chi si rifiuta, chi viene scoperto a proseguire l’insegnamento in lingua ucraina viene deportato in poche ore. «Nessun bambino è al sicuro nel nostro territorio».

Presidi e professori sono stati imprigionati, come settecento concittadini, torturati nella mente e nel corpo, con gli elettrodi. La fondatrice degli Angeli di Taira, un’unità medica che aiuta gli sfollati, descrive la sua esperienza. Catturata, anche lei torturata. «Tutto quello che avete sentito sulla legge, non esiste lì». Se è viva, lo deve a uno scambio di prigionieri. «I russi non se ne andranno da soli. Nessun denaro o premio riporterà in vita i morti».

Per continuare a salvare vite, però, gli aiuti fanno la differenza. Generatori, pezzi di ricambio per le linee elettriche martoriate. Oleksandr Chekryhin dirige il Dipartimento prevenzione delle emergenze della protezione civile ucraina. Ai suoi uomini occorrono tute protettive, giacche, elmetti. In cima alla lista mette la robotica. Definisce la sua missione «revitalizzare i territori». Dall’inizio del conflitto sono stati bonificati più di tremila ordigni, duemila dei quali erano bombe dell’aviazione. «La minaccia più grande alla nostra nazione oggi è la contaminazione degli esplosivi», spiega Chekryhin. Appena un villaggio viene liberato, le sue squadre vanno a renderlo sicuro prima che possano tornarci i civili.

Infine, Yaroslav Bozhko, a nome del movimento di resistenza “Fiocco Giallo”. Molti dei suoi affiliati, partigiani nelle aree occupate, non sono stati nemmeno raggiunti dalla notizia del premio. Ci tiene a citare l’etica, nelle sue parole fondi e armamenti sono uno «strumento» di una lotta più grande. Si rivolge alla platea: «Troppe nazioni continuano ancora a commerciare con la Russia e comprare le sue esportazioni energetiche, ma quei soldi finanziano la guerra all’Ucraina». Oltre alla guerriglia negli oblast annessi illegalmente dal Cremino, Bozhko confida nel dissenso nelle province non etnicamente russe della Federazione, soffocate da una feroce repressione. «Il loro mondo è basato sulla forza bruta. Non si possono fare patti con il diavolo, perché portano guai. E un guaio alla volta, si scende lungo la strada verso l’inferno».

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