La versione di Ban Ki-moonIl multilateralismo è in bilico, ma si può ancora salvare

L’ex capo dell’Onu dice di sentirsi fortunato per non aver mai avuto niente a che fare con Trump, chiede che i russi che commettono atrocità in Ucraina siano puniti al più presto e spiega perché lui non fa ancora il pensionato

AP/Lapresse

Questo è un articolo del numero di Linkiesta Magazine + New York Times World Review 2022 ordinabile qui.
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Ban Ki-moon era un teenager proveniente da un paese di quella che ora è la Corea del Sud quando, insieme con altri giovani di tutto il mondo, prese parte a un tour degli Stati Uniti organizzato dalla Croce Rossa e incontrò il presidente americano John F. Kennedy. In seguito, avrebbe descritto questo viaggio come un qualcosa che gli ha cambiato la vita. Lì, nel 1962, sul South Lawn della Casa Bianca, Kennedy si rivolse al gruppo internazionale di giovani e affermò che le persone possono essere amiche fra loro anche se i Paesi ai quali appartengono non lo sono – e che, di fatto, «non ci sono confini fra le nazioni». Decenni più tardi, in qualità di segretario generale delle Nazioni Unite dal 2007 al 2016, Ban ha messo in pratica questa convinzione, dandosi da fare per abbattere le barriere, incoraggiare l’amicizia tra le nazioni e promuovere la pace e la risoluzione dei conflitti. Sei anni dopo la fine del suo mandato, Ban è ancora impegnato in questo senso – a titolo personale, ma anche come vicepresidente di un gruppo di leader mondiali noto come The Elders che è stato creato quindici anni fa dall’allora presidente sudafricano Nelson Mandela ed è ora guidato dall’ex presidente irlandese Mary Robinson. In questa intervista, Ban ha espresso la sua frustrazione per la decisione di ritirarsi dagli Accordi di Parigi sul cambiamento climatico presa da Donald Trump quando era presidente degli Stati Uniti e per l’aggressione dell’Ucraina da parte del presidente russo Vladimir Putin.

Ban Ki-moon, da quando lei ha lasciato la guida delle Nazioni Unite, nel 2016, il mondo è passato attraverso grandi turbamenti. Ondate di populismo hanno spazzato l’Europa e gli Stati Uniti, la pandemia ha ucciso molti milioni di persone e ora ci troviamo nel mezzo di una guerra in Ucraina. Secondo lei il mondo è in pessima forma?
Anche nel corso del mio mandato ci sono stati molti conflitti. Ma io ho il timore che noi stiamo vivendo in un mondo nel quale la democrazia è in crisi. E questa cosa mi preoccupa molto, soprattutto in relazione all’illegale aggressione russa dell’Ucraina. La Russia è uno dei membri permanenti del Consiglio di sicurezza. E, normalmente, il Consiglio di sicurezza è la principale organizzazione che può mantenere la pace e la sicurezza. Ma, in quest’occasione, il Consiglio di sicurezza è paralizzato. E questa per me è davvero una fonte di grande preoccupazione.

Lei come vede le democrazie occidentali e in particolare gli Stati Uniti?
Benché io non lo abbia mai incontrato di persona, ritengo di essere stato molto fortunato per non aver dovuto avere a che fare con il presidente Donald Trump quando ero segretario generale. Ho terminato il mio mandato alle Nazioni Unite venti giorni prima che lui entrasse in carica.

E come mai si sente fortunato per non aver dovuto avere a che fare con il presidente Trump?
Perché con lui il multilateralismo ha iniziato a indebolirsi e il presidente Trump si è ritirato dagli accordi di Parigi sul cambiamento climatico. Ero determinato a ottenere che l’accordo sul cambiamento climatico entrasse in funzione durante il mio mandato. Per questo, la prima cosa che ho fatto è stata convincere il presidente George W. Bush. E gli sono riconoscente perché ha compreso la mia logica, le mie intenzioni e la mia passione. E mi ha aiutato. Ci sono voluti quasi dieci anni perché l’accordo diventasse effettivo, cosa che è avvenuta il 3 novembre del 2016, circa cinquanta giorni prima della fine del mio mandato. Quando, in seguito, il presidente Trump ha deciso di ritirarsi dagli Accordi di Parigi sul cambiamento climatico, ho tirato un gran sospiro di sollievo. Perché? Perché se Trump fosse stato presidente un anno prima, allora non ci sarebbe stata alcuna possibilità di raggiungere gli Accordi di Parigi. Ma, dal momento che essi erano già entrati in vigore, il ritiro da parte degli Stati Uniti ha semplicemente significato che Washington non avrebbe più versato la loro quota di finanziamenti. È da allora che io sono critico con il presidente Trump. La sua visione del cambiamento climatico era totalmente sbagliata da un punto di vista scientifico. La sua visione politica era molto poco lungimirante ed era irresponsabile sotto il profilo economico. Allora ho manifestato la mia convinzione che un giorno Trump sarebbe stato ricordato per essere stato dalla parte sbagliata della storia. E sono stato molto grato al presidente Joe Biden, il cui primo atto presidenziale è stato aderire nuovamente agli Accordi di Parigi.

Lei ha recentemente condannato l’invasione russa dell’Ucraina come un “oltraggio morale”. Qual è la via d’uscita da questa guerra?
Ho visitato l’Ucraina il 16 agosto scorso con l’ex presidente colombiano Juan Manuel Santos, che è ha vinto il premio Nobel per la pace. L’essere stato testimone dello spaventoso massacro a Bucha e Irpin è una cosa che mi ha fatto inorridire. Abbiamo domandato pubblicamente che chi ha commesso quella strage sia assicurato alla giustizia e sia condannato – se non oggi, domani e, se non domani, comunque presto nel prossimo futuro. Dal momento che la seconda maggiore potenza nucleare del mondo, la Russia, sta commettendo questo tipo di crimini contro l’umanità e che le Nazioni Unite e il multilateralismo si sono indeboliti se non sono stati completamente distrutti, ecco, siamo di fronte a un problema serio. Purtroppo, vediamo che molti Paesi, e tra questi anche alcuni Paesi molto importanti in Asia, mantengono il silenzio riguardo a queste atrocità. E questa è chiaramente una violazione dei principi della Carta delle Nazioni Unite. Come diceva l’arcivescovo Desmond Tutu, rimanere zitti davanti alle ingiustizie significa prendere le parti dell’oppressore. Invece dovremmo davvero mostrare la nostra solidarietà condannando gli spietati massacri di esseri umani compiuti dalla Russia.

La fine della Guerra fredda ha segnato anche la fine della corsa agli armamenti nucleari da parte delle superpotenze. Ma lei ci ha messo in guardia sul fatto che la minaccia nucleare sia ora di nuovo presente. Quanto è grave la situazione?
Le armi di distruzione di massa sono una delle minacce esistenziali maggiori e più incombenti a cui, proprio in questo momento, il mondo deve far fronte. La recente aggressione della Russia all’Ucraina e la minaccia da parte della prima di ricorrere a rappresaglie nucleari in caso di interventi che cerchino di prevenire i suoi bombardamenti sulle centrali energetiche ucraine ha risvegliato lo spettro di un inverno nucleare. Un terrorismo attuato con armi di distruzione di massa, attraverso incomprensioni ed errori di valutazione, potrebbe scatenare una inaspettata guerra totale tra potenze rivali. Come evento isolato o come catalizzatore di una guerra tra grandi potenze, il terrorismo attuato con armi di distruzione di massa potrebbe infliggere un costo enorme dal punto di vista economico, sociale, ambientale e umano. Gli Stati Uniti e la Cina, che sono i due Paesi più potenti del mondo, devono confrontarsi con questa realtà e disinnescare con determinazione questo pericolo prima che sia troppo tardi.

Un’altra delle sue grandi priorità come leader mondiale è stata l’uguaglianza di genere. In che modo ha iniziato a interessarsi di questa questione?
Sono cresciuto in un Paese molto conservatore: la Corea. Sono nato nel 1944, prima della fine della Seconda guerra mondiale. E, crescendo, ho visto come venivano trattate mia madre, le mie sorelle e tutte le mie parenti. La Corea era una società completamente maschile. Le donne, per quanto potessero essere istruite, non avevano alcun ruolo da svolgere. Non appena sono diventato segretario generale delle Nazioni Unite, ho deciso di voler introdurre cambiamenti per combattere questa ingiustizia. Ho controllato gli archivi e sono rimasto esterrefatto scoprendo che dalla fondazione delle Nazioni Unite nel 1945 e fino al 1992 – e cioè nel corso di ben quarantasette anni – solo tre donne avevano ricoperto la carica di assistant secretary general o di under secretary general. Una volta, mentre ero in visita nel Regno Unito, ho incontrato la prima donna under secretary general dell’Onu, la diplomatica inglese Margaret Joan Anstee che è venuta a incontrarmi e mi ha regalato un libro intitolato: Never Learn to Type: A Woman at the United Nations (“Mai imparato a battere a macchina. Una donna alle Nazioni Unite”). Questo mi ha dato l’idea per fare qualcosa. Nel 2010, ho creato U.N. Woman, che era come un ministero per i diritti delle donne. Quindi ho cominciato a nominare donne in posizioni di rilievo. C’era una commissione che selezionava i candidati ad assistant secretary general e a under secretary general e, ogni volta, questa commissione mi proponeva i nomi di tre uomini. Una volta ho chiesto: «Ma non c’era nessuna donna?». E mi hanno risposto: «Sì, ce n’erano un bel po’, ma nessuna aveva gli standard richiesti». E allora ho detto: «Fatemi vedere una delle donne che hanno fallito il test». Le ho fatto un colloquio e l’ho scelta. Mi dicevano che non stavo osservando le regole e le norme. E io replicavo: «È una mia prerogativa. Non mi avete mai proposto nessuna donna. Assicuratevi che, al di là del fatto che raggiunga gli standard o no, ci sia sempre almeno una donna fra i tre candidati». Come risultato, durante il mio mandato, centocinquanta cariche sono state attribuite a delle donne.

© 2022 THE NEW YORK TIMES COMPANY AND FARAH NAYERI

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