«Le serie televisive sono morte». Non l’ho detto io (io li chiamo «sceneggiati», perché quando noi vegliarde eravamo piccine si chiamavano così), e non so neanche se sia vero; di sicuro io non riesco più a guardarle, mi sembra che sia tutto ormai sbrodolatissimo, dieci puntate quando basterebbe un’ora.
«Le serie televisive sono morte» lo dice Paolo Sorrentino a proposito del progetto “La papessa”, in cui Ivana Spagna è la pontefice e Lino Banfi è non ricordo più se il vescovo o chi. Lo dice Paolo Sorrentino nel ruolo che gli riesce meglio: quello di Paolo Sorrentino.
Sei anni fa Paolo Sorrentino, nel ruolo di Paolo Sorrentino, apparì a casa di Alessandro Cattelan nell’apertura di serata della consegna dei David. Doveva istruire il presentatore sulla storia del cinema, finiva che si addormentavano davanti al dvd della “Grande bellezza”. Era forse quella (l’apparizione a casa Cattelan, no “La grande bellezza”) la miglior cosa che Sorrentino avesse mai fatto? Forse no.
Nove anni fa Paolo Sorrentino, nel ruolo di Paolo Sorrentino, salì su un palco di Los Angeles a ritirare un Oscar. Ero molto mal disposta – non è che “La grande bellezza” sia tra i miei cento film preferiti, diciamo: ho un debole per i registi rachitici, io – e tuttavia «grazie alle mie fonti d’ispirazione: Federico Fellini, Talking Heads, Martin Scorsese, Diego Armando Maradona» è un pezzo di cinema che mi fa piangere e ridere ogni volta, ed è il mio non saper spiegare il perché mi faccia ridere e piangere a renderlo un pezzo di cinema, credo. È forse quel ringraziamento la cosa migliore che Sorrentino abbia mai fatto? Mmm.
«Tutte le serie tv all’inizio sono diverse, poi arriva qualcuno che le scrive e diventano irrimediabilmente delle cacate». Lo dice Paolo Sorrentino quando, nel 2010, appare in “Boris” nel ruolo di Paolo Sorrentino, quello che ha girato “Il divo” a Scampia.
È forse la faccia di Paolo Sorrentino quando sul set di “Occhi del cuore” lo scambiano per Alan Sorrenti la cosa migliore che avesse fatto finora Paolo Sorrentino? Forse, ma ora Paolo Sorrentino fa Paolo Sorrentino in una serie di cui non so con che titolo parlarvi. L’originale francese si chiama “Dix pour cent”, dieci per cento. Quando l’hanno messa su Netflix, le hanno dato il titolo internazionale di “Call my agent”, chiami il mio agente. Poiché siamo il paese più provinciale della via lattea, Sky ha intitolato la versione italiana non “Chiami il mio agente”, non “Dieci per cento”, ma “Call my agent – Italia” (il dramma di jobs act non sembra aver reso chiaro che agli italiani si annoda la lingua se provano a pronunciare parole inglesi).
Il mio tenace controcorrentismo mi ha sempre impedito di guardare l’originale francese, che piace alla gente che piace, e narra le vicende d’un’agenzia di attori, le storie degli agenti ma anche dei divi, in ogni puntata uno presente nel ruolo d’un sé stesso giusto un po’ iperbolico: si prende la percezione che di quell’attore ha il pubblico, e la si carica per l’effetto comico.
Ero molto scettica sulla capacità di risultare avvincente d’un soggetto che mi sembrava interessante giusto per gli addetti ai lavori, e non mi sarei mai messa a guardarlo se non avessi saputo che all’ultima puntata c’era Corrado Guzzanti, che assieme a Checco Zalone rappresenta non solo la più assoluta concentrazione di talento in un essere umano di nazionalità italiana, ma anche l’unico star system interessante per questo tempo tenacemente esibizionista: due che hanno sempre l’aria di preferire stare a casa loro che venire ospiti nel tuo programma.
E la puntata di Guzzanti – l’ultima – è indolenza in purezza, con la povera agente che cerca di proporgli di tutto, da una collaborazione con certi youtuber molisani alla partecipazione a “Temptation Island”, e lui che educatamente declina tutto («Mi sarà sfuggita la chiamata» «Erano 137» «Tutte sfuggite»); ma poi si ritrova inghiottito in un delirio egotico di Emanuela Fanelli, che interpretando non una versione di sé stessa ma un archetipo d’attrice mitomane può esagerare nei suoi «Lo sapevo che Quentin come mi vedeva sbroccava» senza temere di sputtanarsi davanti a un pubblico incapace di distinguere l’io-narrante dall’io-solo-io. I due insieme sono una tale meraviglia che quasi vorrei che Guzzanti avesse voglia di lavorare e facessero un programma insieme; ma, se Guzzanti avesse voglia di lavorare, poi non sarebbe più Guzzanti.
La povera agente gli propone anche, in una battuta a due livelli, “Centodieci per cento”, «la risposta italiana a “Dieci per cento”» («Ah, je rispondiamo pure?»), «thriller sociale a sfondo superbonus» (il secondo livello sa il cielo chi lo capirà, non avendo loro intitolato il prodotto locale “Dieci per cento”).
Incidentalmente, e mestamente: quella che fa l’agente di Guzzanti – veterana, spiccia, scettica – è chiaramente Giovanna Cau, già agente di tutti, da Mastroianni a Moravia, da Fellini alla Loren. Ha persino il cane che si chiama Marcello. Però spettatori della versione francese dicono che no, la vecchia col cane c’era già lì, la nostra è una copia. Per mettere in scena Giovanna Cau, un pezzo di storia del cinema italiano, abbiamo bisogno di prenderla dagli sceneggiatori francesi. Che disastro.
Per arrivare a Guzzanti mi sono messa a guardare lo sceneggiato dall’inizio, e alla seconda puntata arriva Sorrentino. Non mi dilungherò sul casting della “Papessa”, giacché voglio concentrarmi sulla scena che Sorrentino s’è evidentemente scritto da solo, quella in cui racconta d’essere stato all’incontro genitori-figli alla scuola del nipote, al posto dei genitori del piccino che avevano da fare.
Se siete di quelli che usano parole come «spoiler», smettete di leggere, perché ho intenzione di trascrivere la scena non dico per intero ma quasi. L’agente ruffiano si precipita a dire che belle occasioni siano, e Sorrentino lo stronca: «Sono la cosa più prossima alla morte»; per poi proseguire: «Puoi trovare, nella scuola, il sentimento più orrendo dell’essere umano: l’entusiasmo immotivato».
Ci sono genitori che si offrono di organizzare qualunque corso per i piccini: batteria, macarena. «Applausi, giubilo, un consenso generale dei genitori. Un altro genitore, tracagnotto, uno di quelli che hanno un sacco di tempo libero, ha detto: ma io guardo il ciclismo in televisione dalla mattina alla sera, io posso fare un corso di ciclismo». Se non leggessimo tutti i gruppi di mamme su Facebook, o la rubrica di Assia Neumann, sembrerebbe satira, e invece sappiamo che è mera cronaca, realtà minimale che Sorrentino racconta con l’orrore che è giusto avere in un “Apocalypse Now” in sessantaquattresimo.
«Tutti quanti hanno detto: ma è un’idea bellissima, nel mondo dovrebbero esserci solo ed esclusivamente le biciclette» (Sorrentino monologa, e io immagino cosa sarebbe questa scena ambientata a Milano, perché nessun regista di provincia decide mai di raccontare Milano, perché s’innamorano tutti di Roma, quanto materiale sprecato).
«A quel punto la maestra mi guardava, io lo sapevo, stava arrivando a me: Sorrentino, lei potrebbe prendere una telecamera e filmare tutti i corsi che ci sono. Però il consenso lì è stato più moderato, perché il critico cinematografico come sai alligna con perseveranza nel cuore del genitore moderno».
Ed è adesso che arriva il momento dei vestiti nuovi dell’imperatore: erede del bambino che urlava che il re era nudo, Sorrentino osa dire – a una classe di genitori del ventunesimo secolo, aspiranti organizzatori di corsi di macarena – che, quando i suoi figli erano piccoli, al pomeriggio giocavano per i fatti loro e nessuno gli organizzava corsi, «e tutto sommato mi sembrano felici». L’agente chiede come abbiano reagito, e sembra di esserci: «Hanno fatto scendere su di me un silenzio che si tributa solo agli ergastolani. Un nonno ex hippy ha detto con la mascella serrata: delinquente. E un’altra signora, madre di un figlio unico, mi ha puntato il dito e ha detto: assassino».
Le serie televisive sono morte, i pomeriggi liberi non è che godano di gran salute, e al pubblico non resta che sperare in Guzzanti e Sorrentino che si litigano la Fanelli a “Temptation Island”. “Temptation Island” il cui titolo non sappiamo pronunciare, ma ora non cavilliamo.