Non so chi vincerà il congresso del Partito democratico, ma so con certezza chi dovrebbe perderlo. Un preciso tipo di dirigente, di cui non mancano esemplari in tutte le mozioni, correnti e sottocorrenti del partito. Non è difficile riconoscerli.
Sono quelli che oggi fanno dichiarazioni indignate in difesa delle ong e contro la disumanità del governo Meloni, ma quando erano al governo con Giuseppe Conte sembravano avere perso la voce, tanto da metterci oltre un anno solo per decidersi a toccare i decreti sicurezza voluti da Matteo Salvini e inaspriti con particolare entusiasmo dal Movimento 5 stelle, e tutto questo semplicemente perché ai nuovi alleati grillini non piaceva l’idea di rimangiarseli tanto in fretta. Una posizione che tuttavia non impediva ai suddetti dirigenti del Partito democratico di indicare proprio i cinquestelle quali alleati privilegiati per tutte le future elezioni, innalzando il loro leader, primo responsabile di quegli stessi provvedimenti, a punto di riferimento di tutti i progressisti, leader dell’intera coalizione e ideale candidato del centrosinistra a Palazzo Chigi.
Sono quelli che nel frattempo facevano finta di non vedere cosa accadeva nei lager libici, di fatto finanziati e legittimati dagli accordi con l’Italia (accordi fatti indovinate da chi). Sono quelli che pure in assemblea votavano ordini del giorno che chiedevano giustamente di stracciarli, quegli accordi, salvo poi in parlamento votare per rinnovarli lo stesso (sì, è successo anche questo).
Sono quelli che hanno passato una vita a combattere l’antipolitica, a difendere partiti e istituzioni dalle campagne populiste e giustizialiste, sono quelli che si sono indignati e hanno combattuto aspramente Matteo Renzi per parole d’ordine come «rottamazione», ai tempi delle primarie contro Pier Luigi Bersani, o «taglio delle poltrone», ai tempi del referendum del 2016, salvo poi accettare senza fare una piega di rimangiarsi tutti i precedenti voti contrari e approvare una riforma della Costituzione incentrata unicamente sul «taglio delle poltrone», quella voluta dai grillini, e votare e fare campagna a favore di quello scempio persino nel referendum.
Sono quelli che hanno passato una vita a difendersi dalle accuse di intelligenza con il nemico da parte di un infinito girotondo di giornalisti, intellettuali e magistrati, perlomeno dai tempi della bicamerale D’Alema in poi, ripetendo che le riforme istituzionali andavano fatte con l’opposizione, e che i leader dell’opposizione non se li poteva scegliere la maggioranza (quando la maggioranza erano loro, e all’opposizione c’era Silvio Berlusconi), per poi riciclare addirittura gli stessi slogan, gli stessi giochi di parole, lo stesso lessico dei loro calunniatori, con «Renzusconi» al posto di «Dalemoni» e il «patto del Nazareno» al posto del «patto della crostata».
Sono quelli che hanno inseguito – quando erano loro alla guida, e pensavano di vincere le elezioni che poi sistematicamente perdevano, o non-vincevano – premi di maggioranza e marchingegni elettorali e istituzionali di ogni tipo, dal semipresidenzialismo al premierato forte, dal doppio turno di collegio al maggioritario a turno unico con quota proporzionale, al proporzionale con premio alla coalizione, alla lista, alla qualunque. Salvo guidare campagne virulente contro l’assalto alla Costituzione, l’uomo solo al comando e la deriva presidenzialista, quando a promuovere simili pasticci, illudendosi di beneficiarne, erano i loro avversari, e tanto più quando erano gli avversari interni.
Sono quelli che sono stati più federalisti della Lega quando hanno fatto la riforma del titolo V, poi si sono resi conto che bisognava tornare indietro (ma hanno votato contro il referendum per tornare indietro perché era pur sempre il referendum di Renzi) e ora si battono il petto gridando alla spaccatura dell’Italia e al tradimento del Mezzogiorno dinanzi alla riforma Calderoli, che in fondo non fa che applicare gli stessi principi da loro predicati (e purtroppo anche praticati) nel corso di questi decenni, in cui non hanno parlato d’altro che di «questione settentrionale».
Sono – soprattutto e prima di ogni altra cosa – quelli che ovunque si candidino, si facciano eleggere o nominare, lo fanno sempre e solo per estremo senso del dovere e con grande spirito di sacrificio, per il bene del partito e nell’interesse del Paese. Che è anche la principale motivazione psicologica per cui sono capaci con tanta naturalezza di rimangiarsi ciascuno dei principi solennemente proclamati fino al giorno prima, sacrificandoli sull’altare del loro duro compito. E guai a chiunque si permetta di eccepire alcunché. Guai a quei miserabili traditori, venduti, opportunisti, ingrati e trasformisti che non abbiano voluto seguirli nell’ennesima giravolta, impedendo loro di fare o rifare il presidente del Consiglio o il presidente della Repubblica, il ministro o il commissario europeo, il deputato o il senatore.
Chiunque vinca il prossimo congresso del Partito democratico sarà attorniato da un buon numero di questi tipi umani, e farà bene a guardarsene.