Per quelli tra voi che hanno sempre avuto qualche dubbio, o che hanno segretamente bisogno di un ripasso, abbiamo provato a fare un po’ di chiarezza ricorrendo al comodo formato delle domande frequenti (FAQ). Iniziando dalle basi.
Prima di tutto: che cos’è una denominazione di origine?
Si potrebbe rispondere in molti modi, ma per farla semplice possiamo spiegare le denominazioni d’origine come i “nomi comuni” dei vini, quelli che permettono di rispondere alla domanda: «Che vino è questo?» o, se preferite: «Cosa vuoi bere?». «Un barolo», «un valpolicella», «un franciacorta», «un prosecco» (che, vale la pena ricordarlo, non è una bollicina qualsiasi ma una in particolare). O, per andare all’estero, «Uno champagne», «un bordeaux», «un porto».
Nomi comuni, appunto, nel senso che non sono nomi propri (come invece, per esempio, il franciacorta Annamaria Clementi dell’azienda Ca’ del Bosco, lo champagne Grande Cuvée della maison Krug o il barolo Monfortino di Giacomo Conterno), e che quindi possono essere scritti con la minuscola, anche se su quest’ultimo esistono diverse scuole di pensiero.
Nomi “comuni” anche nel senso che sono nomi condivisi, che designano una proprietà collettiva, come è per definizione un luogo, un’area geografica. Quest’area geografica può essere eventualmente associata a un tipo di uva, come in nebbiolo d’Alba, o a una metodologia, come sforzato di Valtellina, o magari a una menzione tradizionale, come cacc’e mitte di Lucera.
In ogni caso, per avere il diritto di rivendicarla, cioè di citarla in etichetta, è necessario seguire un insieme di regole, il disciplinare, che stabilisce dove il vino in questione si può produrre, con quali vitigni, cosa si può fare e cosa non si può fare in vigna in cantina, quando si può metterlo in commercio e così via.
Doc, Docg o Igt?
In Italia, per indicare il luogo di produzione di un vino su un’etichetta, si distingue tra Doc (Denominazione d’origine controllata), Docg (Denominazione d’origine controllata e garantita) e Igt (Indicazione geografica tipica).
Fuori da queste tre opzioni esiste il cosiddetto vino senza denominazione, o generico, un tempo noto come “Vino da tavola”, dicitura oggi sostituita da “Vino” tout court, eventualmente accompagnato da “bianco / rosso / rosato”. Si può anche scrivere “Vino d’Italia”, ma si trova di rado.
Rispetto a Doc e Docg, le Igt coprono in genere un territorio più vasto (spesso una provincia o una regione, come Provincia di Pavia o Marche) e devono sottostare a parametri meno severi (come tenore alcolico minimo, rese di uva in vigna e così via).
Solo i vini Doc e Docg devono affrontare l’esame di una commissione d’assaggio, e possono inoltre fregiarsi della famosa “fascetta” che circonda il collo di alcune bottiglie. A differenza delle Doc, in Docg la fascetta è numerata e obbligatoria. Tra le 76 Docg italiane (le Doc sono invece 332), troviamo molti dei nostri vini più celebri: barolo, gattinara, franciacorta, taurasi.
E le Dop?
Dop (Denominazione di origine protetta) è la dicitura che si preferisce in ambito europeo, introdotta per equiparare le denominazioni dei diversi paesi (le Doc e Docg italiane, le Aoc francesi, le Do spagnole e così via). Gli acronimi nazionali però sono stati mantenuti, e sono tuttora più usati degli omologhi comunitari. Allo stesso modo, Igp (Indicazione geografica protetta) è la dicitura europea corrispondente a Igt.
Quando nascono e perché?
In Italia la prima Doc è del 1966, ma si legiferava in merito già a inizio decennio. Il modello sono le Aoc (Appellations d’origine contrôlées) francesi. Proprio in Francia nasce, all’inizio del Novecento, l’urgenza di certificare l’origine di un vino attraverso regole uguali per tutti.
Già da secoli si era andata affermando l’idea che il luogo di nascita di un prodotto contribuisse a determinarne il profilo organolettico, e nell’Ottocento era sempre più comune pensare che tra un alimento qualsiasi e un alimento di cui fosse specificata l’origine, fosse automaticamente più pregiato il secondo: è un’idea tutt’altro che peregrina, ma che può generare mostri, come quei menù, diffusi ancora oggi, in cui di ogni ingrediente viene pedissequamente precisata la provenienza.
A inizio Novecento, nel mondo del vino francese, l’origine dei vini era talmente tenuta in conto che le truffe erano ormai all’ordine del giorno, soprattutto a opera dei négociants (cioè vinificatori e imbottigliatori non proprietari di vigneti), che da padroni incontrastati del mercato potevano impunemente acquistare uve di diversa provenienza, farci un vino e decidere su due piedi che nome dargli.
Da una rivolta contro questo stato di cose, condotta non senza violenza dai vignaioli, che all’epoca non godevano di alcuna tutela, scaturì l’istanza che fosse il potere pubblico attraverso le leggi, e non i privati secondo il proprio interesse, a stabilire cosa fosse e come andasse fatto un bourgogne, un volnay, un côtes-du-rhône e così via.
Fu un processo più che trentennale e tutt’altro che lineare, e sta alla base del modo in cui, da allora in poi, parliamo di vino.
Le Doc sono tutte uguali?
Sul piano teorico e sul piano legislativo sì, al netto delle differenze tra Doc e Docg, che in ultima analisi non sono così spiccate. Sul piano della fama, invece, tutt’altro.
Per riprendere il paragone dei “nomi comuni” dei vini, se a tutti è capitato prima o poi di chiedere un franciacorta, un barolo o un prosecco, magari a non tutti viene in mente di ordinare un alezio, un vicenza o un delia nivolelli, perché si tratta di denominazioni alle quali siamo meno abituati. È successo che ben presto ha iniziato a farsi strada la convinzione che un vino certificato Doc fosse necessariamente migliore, sul piano qualitativo, di un vino senza denominazione.
L’immediato corollario è stata una moltiplicazione delle Doc, a volte in modo fantasioso o spregiudicato. Se la Doc serviva in origine a istituzionalizzare, per proteggerlo, un determinato territorio, da un certo punto in poi si è trasformata nello strumento di promozione di un territorio poco noto (o noto solo localmente), uno stratagemma per issarlo a una fama non ancora raggiunta.
Il problema è che, spesso, il gioco non funziona: lo status di Doc da solo non basta a far magicamente lievitare le vendite, e la diffusione di troppe Doc le rende inflazionate, quindi poco attrattive. Con il risultato che tutto il sistema rischia di perdere credibilità.
Un vino a denominazione di origine è più buono?
No. A qualcuno sembrerà un’ovvietà, ma è utile precisarlo: un vino a denominazione di origine, rispetto a un vino generico, è più tracciabile, è presumibilmente più controllato e soprattutto ha un’etichetta più chiara per chi non lo conosca. Ma è anche possibile che sia un vino cattivo, ottenuto da uve scadenti e lavorato con sciatteria, mentre al contrario un generico Vino rosso sia il prodotto di uve coltivate con cura e vinificate con talento.
Ma le commissioni di assaggio?
Appunto. È vero che per ottenere Doc e Docg un vino deve superare le forche caudine di una commissione di assaggio. Succede però che da diversi anni queste commissioni, composte perlopiù da enologi (i “tecnici” che nelle cantine si occupano di fare il vino), siano sempre più spesso lontane dai gusti sia del pubblico che della critica.
Senza voler generalizzare, è purtroppo ormai comune che vini considerati buoni o ottimi da appassionati di vino, sommelier e giornalisti vengano invece bocciati dalle commissioni, che rifiutano loro l’ottenimento della Doc riscontrando i difetti più disparati e intimano al produttore di correggerli enologicamente. In alcuni casi imbarazzanti, lo stesso vino, ripresentato una seconda volta alla stessa commissione, viene misteriosamente approvato. Il fenomeno è endemico, e casi simili si registrano dal Veneto all’Umbria, da Sancerre a Perpignan.
Nel mondo del vino esiste un dibattito molto acceso attorno al tema: c’è chi vorrebbe abolire le commissioni di assaggio, chi vorrebbe affiancare ai tecnici dei giornalisti o dei sommelier, che non hanno la loro preparazione ma spesso hanno più il polso dello “spirito del tempo”.
L’equivoco alla base sta nel fatto che una valutazione troppo tecnica si concentra nella ricerca di difetti individuati a priori, rischiando di perdere di vista la complessità di un vino e la relatività del gusto. Inoltre, i parametri alla base di queste valutazioni si fondano su un’ideologia enologica ben precisa, che si è formata negli anni Sessanta/Settanta e che vede come il fumo negli occhi, per esempio, un vino bianco dorato anziché giallo paglierino, un vino velato invece che perfettamente trasparente, o ancora una leggera ossidazione, o una serie di profumi considerati tabù.
Dimenticando però che in alcuni casi questi presunti difetti non tolgono nulla né alla qualità né alla tipicità del vino. E dimenticando, soprattutto, che questa ideologia, condivisibile o no, è appunto un’ideologia, non una legge divina.
Uscire dalla Doc, declassare un vino. Che significa?
Quando un vino non ottiene la denominazione che gli compete viene declassato, cioè prende la denominazione inferiore che insiste su quel territorio: per esempio un Docg può essere declassato a Doc, un Doc a Igt, un Igt a Vino generico. Questa sorta di “retrocessione” può essere anche volontaria. In polemica con le commissioni di assaggio, e con le istituzioni in genere, magari a seguito di una bocciatura, alcuni vignaioli scelgono di non presentare più i propri vini, rinunciando alla denominazione. Succede specialmente nel caso di denominazioni poco o mediamente note – è più raro che si rinunci a una Docg ambitissima come Barolo, per esempio – ma non mancano anche gli esempi illustri (Franciacorta, Etna, Pouilly-Fumé).
Il fenomeno è in crescita, in Italia come in Francia, soprattutto tra i piccoli vignaioli artigianali, i più bersagliati dalle commissioni d’assaggio, e ha a che fare a volte anche con un certo ribellismo e un’allergia ai controlli. È sempre più comune allora trovarsi davanti a scaffali di enoteche popolati da etichette, magari graficamente curatissime, che però non dicono nulla se non il nome del produttore. Vi si legge, infatti, soltanto la parola Vino, magari accompagnata dal colore; Oltralpe è particolarmente diffusa la dicitura Vin de France. Chi volesse bere quel vino, dunque, non saprà nulla fuorché quello che gli racconterà il venditore, che a sua volta si fiderà più o meno ciecamente del grossista, e in ultima analisi del produttore. Un vino del genere, privo di indicazioni in etichetta, può contenere, teoricamente, sauvignon dei Colli Euganei vinificato assieme a barbera dell’Astigiano, e nessuno può provare, invece, che si tratti di un pinot nero del Casentino come giura il vostro enotecario di quartiere. Normalmente, però, ci si fida, e ci si fida tanto più quanto più il produttore è noto («io lo conosco, sono stato in cantina», vi dirà piccato l’enotecario).
È bene precisare che in molti casi abbiamo ragione di fidarci, e che la proliferazione dei vini senza denominazione non nasce da un capriccio individuale ma dalla disfunzionalità del sistema-Doc. Alcuni vignaioli non hanno altra scelta rispetto al declassamento e ne farebbero volentieri a meno; altri voltano le spalle indignati al primo vino giudicato «rivedibile», e rinunciano per sempre alla Doc come per lesa maestà. Il problema, tanto per cambiare, è politico, e ha a che fare con il dialogo – o la sua assenza – all’interno delle Doc («sul territorio», come si dice); all’isolamento, forzato o spontaneo, di alcuni vignaioli, e alla loro voglia e possibilità di farsi sentire.
Fatto sta che, in questo modo, a pesare nel processo di vendita è sempre di più il nome del produttore, la sua credibilità, la sua fama, cioè in ultima analisi il suo marchio privato. Un completo rovesciamento del processo che ha portato alla nascita delle Aoc francesi, e quindi della tutela stessa dell’origine; e una situazione pericolosa, se si normalizzasse, perché se torna a contare di più il marchio privato, a guadagnarci non saranno certo i piccoli viticoltori artigiani, ma chi avrà più mezzi per pagare il grafico migliore o il social media manager più sveglio.
Il celebratissimo terroir, insomma, che ogni vignaiolo dichiara di difendere, rischia di trasformarsi in un’astrazione, una promessa, uno storytelling. Ma anche questo, forse, è lo spirito del tempo.