Abitudini stravolteL’arrivo del freddo nell’epoca della crisi climatica diventa una notizia

Con estremo ritardo, in Italia torna a nevicare. E il termometro scende sotto lo zero, come dovrebbe essere in questo periodo dell’anno. Mai come ora, però, dobbiamo ricordarci del caldo che abbiamo appena vissuto, per non perdere di vista le soluzioni che potrebbero dare un futuro al pianeta

LaPresse

«Rischio alto per Toscana, Umbria, Lazio, Sardegna e, soprattutto Campania: in queste regioni si attendono precipitazioni più che abbondanti. Per questa terza settimana di gennaio è atteso l’arrivo del ciclone Thor, che porterà con sé una forte aria gelida su tutto il Mediterraneo. Il freddo, che arriva direttamente dalla Groenlandia, provocherà un’intensa ondata di maltempo», abbiamo potuto leggere sul sito di RaiNews pochissimi giorni fa. 

Ma delle intense piogge, come anche della neve che l’afflusso di aria fredda in quota sulle Alpi farà fioccare fino a quote prossime alle vallate, si parla e scrive praticamente ovunque: nelle prime pagine, come nei servizi radiotelevisivi, si evidenzia che le temperature sono ovviamente previste in sensibile diminuzione, dapprima al Nord e poi anche al Centro-Sud.  Saranno al di sotto della media del periodo di quasi 8 gradi.

Dunque, nel pieno di un gennaio incredibilmente caldo – con anomalie termiche che in Europa, per limitarci a un esempio che ci riguarda più da vicino, hanno fatto registrare alla Germania 5,7 gradi in più rispetto alla media 1991-2020, alla Svizzera +4,8 gradi, alla Francia +4,2 gradi e circa +3,2 gradi all’Italia – anziché sottolineare queste anomalie, si evidenzia il fatto che stanno per cessare. Il motivo? Avremo una forte diminuzione della temperatura in tutta Europa, compresa la zona occidentale.

Eppure, il nostro continente si sta scaldando a un ritmo più veloce rispetto a quello di qualsiasi altra zona del mondo, tant’è che negli ultimi trent’anni la sua temperatura è aumentata più del doppio rispetto alla media globale. E non sono certo io a dirlo, ma si evince con molta chiarezza leggendo il report Global climate highlights 2022, redatto da Copernicus, il programma europeo per il monitoraggio dei cambiamenti climatici.

«Nella classifica degli anni più caldi, il 2022 è secondo solo al 2020 (con una differenza di 0,3 gradi centigradi) e supera di circa 0,1 gradi il 2019, il 2015 e il 2014. Soprattutto nell’Europa occidentale e meridionale sono state registrate le temperature annuali più alte almeno dal 1950». 

Un anno, insomma, che ci ha fatto vivere l’estate più calda mai registrata in assoluto, un’estate che ha battuto il record detenuto dal 2021, cioè dall’estate precedente. Un anno che ci ha dato un autunno posizionato al terzo posto nella classifica dei più caldi (superato solo dal 2020 e dal 2006) e anche un inverno piazzato già nella top ten.

Un 2022, quindi, a tutti gli effetti fuori dall’ordinario in termini di temperature, non solo perché foriero dell’estate più calda di sempre in Europa ma anche per essere il quinto più caldo mai registrato a livello globale. Etichettarlo come un’eccezione o peggio negargli gli onori della cronaca sarebbe un errore irrimediabile, visto che si inserisce a pieno titolo nel trend evidentissimo che fa degli ultimi otto anni gli anni più caldi da che sono iniziati questi monitoraggi. Potrebbe essere questa, insomma, la nuova normalità che ci attende. 

Prendendo in prestito la perfetta sintesi formulata dall’Alleanza italiana per lo Sviluppo Sostenibile (Asvis), dobbiamo specificare che «non ha mai fatto così caldo, eppure nuovi record di temperatura stanno per arrivare». E questo ci fa pensare che la situazione sia destinata a peggiorare. Secondo Asvis, lo si comprende bene dall’analisi sui gas serra, in continua ascesa nonostante la crescita delle energie rinnovabili

Per l’Organizzazione meteorologica mondiale delle Nazioni unite (Wmo), «la CO2, il gas climalterante maggiormente prodotto dall’attività umana che vede la sua concentrazione in atmosfera misurata in parti per milione (ppm), è per esempio aumentata del centoquarantanove per cento rispetto ai livelli preindustriali: si attesta oggi a 415,7 ppm, superando largamente la soglia di sicurezza suggerita dalla comunità scientifica posta a 350 ppm».

Quanto al metano, meno diffuso ma con un impatto sul lungo periodo maggiore di circa venticinque volte quello della CO2, «fa registrare un +262 per cento rispetto alla media del 1850-1900, con una concentrazione misurata in parti per miliardo (ppb) di 1908 ppb. Quest’ultimo è un gas posto sotto i riflettori dall’attività scientifica, dato che cresce a ritmi sempre più elevati». Il protossido di azoto, infine, segna un +124 per cento: la sua concentrazione, ora, è a quota 334,5 ppb.