Se la rotta balcanica possiamo considerarla chiusa a Trieste, in realtà il percorso verso il Nord Europa continua e arriva a Ventimiglia, dove passare il confine con la Francia negli anni è diventato sempre più difficile a causa della militarizzazione della frontiera. Questo è il punto in cui le due rotte che attraversano l’Italia, quella del Mediterraneo e quella balcanica, confluiscono per poi continuare verso Nord. Destinazione Parigi, Berlino, Londra o Stoccolma. […]
La stazione di Ventimiglia è sempre un via vai di persone migranti. Aspettano il treno che passa il confine, salgono cercando di essere disinvolti, fingendosi turisti proprio come ha fatto Khalid. Il viaggio costa 3,30 euro e dura diciotto minuti. Chi riesce a sfuggire ai controlli passa in un modo così semplice ed economico che questa potrebbe risultare la frontiera più facile del mondo per le persone senza documenti. Invece la polizia francese pattuglia binario per binario, un’operazione ormai collaudata.
Qualcuno ce la fa ma sono davvero pochi, la maggior parte finisce nella rete della Fortezza Europa. Dopo qualche tentativo in treno, passano alle soluzioni più rischiose: di notte, a piedi lungo i binari della ferrovia o attraverso quello che viene chiamato il «sentiero della morte», che passa tra le montagne sopra i ponti dell’autostrada che collegano Italia e Francia.
Il centro della Caritas di Ventimiglia, nello spazio che ospita lo sportello legale, ha esposto un manifesto delle ferrovie francesi che in diverse lingue dice che «camminare e attraversare i binari è pericoloso». Ma il ragazzo nero rappresentato nell’immagine con un piccolo zaino in spalla, più che scappare da una guerra sembra uno scolaretto che attraversa i binari per divertimento e non perché le frontiere sono chiuse, anche ai minori.
Sembra che con questo manifesto le ferrovie francesi stiano cercando di assolvere anticipatamente se stesse e lo Stato in caso di incidenti, omettendo però che chi intraprende quel percorso, camminando di notte lungo i binari, lo fa per necessità.
«Ci risulta che in Francia abbiano messo delle telecamere termiche, con cui la polizia può vedere i migranti anche di notte» mi informa un mediatore culturale che ha appena finito il giro tra i ragazzi venuti per la colazione. […]
Camminando lungo il fiume Roja appena fuori dal centro di Ventimiglia, è possibile vedere i microaccampamenti informali che si sono creati lungo il cavalcavia che costeggia il corso d’acqua. Tante famiglie, e uomini soli di età media non superiore ai venticinque anni. Tra le sterpaglie incontro una famiglia afghana con due figli di otto e undici anni, che è passata da Trieste poche settimane prima, quando anche io ero là.
«Italian police crazy» dice Hazim, che un po’ in inglese e un po’ a gesti racconta che la polizia è arrivata alla stazione per arrestarli e di come siano riusciti a scappare per puro caso.
«Vogliamo andare in Germania, ma l’Austria è troppo pericolosa, per questo abbiamo scelto di passare dalla Francia» aggiunge, mentre finisce di sistemare le poche coperte e i cartoni per la notte.
Hazim, la moglie e i due figli hanno seguito una rotta lungo i Balcani piuttosto singolare: «Dalla Serbia siamo passati in Ungheria, grazie a un trafficante che conosceva la polizia di frontiera ungherese, evitando la Bosnia e la Croazia, molto difficili da superare». A quel punto sono andati a ovest, tracciando un’ideale linea retta da Lubiana a Trieste, poi a Milano e ora a Ventimiglia. Non appena riusciranno a passare questa frontiera riprenderanno verso nord, diretti a Lione dove «ci verranno a prendere degli amici dalla Germania».
Ancora una volta è la comunità a orientare le migrazioni in un punto o in un altro. «Catene migratorie» è il termine tecnico con cui i sociologi spiegano questo fenomeno a volte incomprensibile. Ho conosciuto persone che volevano andare in paesetti mai sentiti con poche migliaia di abitanti, persi nelle campagne del Centro Europa, dove per molti mesi dell’anno il sole e il bel tempo sono qualcosa di sconosciuto e le temperature non superano i cinque gradi, perché là avevano un amico o un cugino.[…]
Una terrazza sul ciglio della strada ospita una primissima accoglienza per chi è stato respinto. Sono i volontari di Kesha Niya e di Progetto 20k a offrire un ristoro, con una colazione improvvisata sotto l’ombra di due alberi.
Chi arriva entro l’ora di pranzo vuol dire che ha passato la notte ammassato in un container dove la polizia francese, se ne ha voglia, ti picchia. Donne, minori e uomini vengono indifferentemente respinti senza considerare i singoli casi. La polizia trascrive velocemente i nomi sul refus d’entrée, il documento che notifica l’espulsione, spesso sbagliando di proposito le generalità in modo da evitare ricorsi.
La polizia italiana non fa altro che prendere atto del respingimento, trascrivendo anch’essa i dati sbagliati indicati dai colleghi francesi.
«È capitato spesso che scrivessero date di nascita errate, per registrare i minorenni come maggiorenni e poterli respingere. Il problema è che alla polizia italiana la cosa evidentemente sta bene» mi spiega Ghufran, il mediatore culturale di WeWorld, un’altra ONG che lavora sul campo. Ghufran è pakistano e si occupa principalmente di chi arriva dalla rotta balcanica.
«Questo è il punto in cui le due rotte si incontrano, trovi nordafricani, subsahariani, mediorientali e asiatici. Hanno fatto percorsi diversi, tutti lunghi e pericolosi, ma alla fine si incontrano qui» mi racconta il mediatore. In questo momento effettivamente ci sono persone di Mali, Sudan, Siria, Tunisia, Afghanistan e Pakistan, un melting pot di culture, lingue e tradizioni che si confrontano tutte con lo stesso problema, la frontiera chiusa.
Incontro un ragazzo siriano che ha urgenza di raccontarmi la sua storia: «Sono di Aleppo, mi chiamo Yassir, sono uno studente universitario. Sono scappato dalla guerra e sono sunnita. All’università chiedevamo democrazia. L’esercito siriano è arrivato e ha ucciso dei miei amici. Io sono andato via, volevo studiare, non fare la guerra. Mi mancano pochi esami per diventare ingegnere». Yassir qui ha un attimo di esitazione, forse sa che parlare al presente della sua condizione di universitario ha poco senso, appartiene al passato.
Ne approfitto per osservarlo meglio e quella che prima mi sembrava una piccola diversità rispetto al contesto, è invece una differenza sostanziale. Occhiali tondi da ragazzo studioso, polo nei pantaloni e mocassini, sembra davvero appena uscito dall’università.
Forse accorgendosi della mia sorpresa, mi dice: «Non scappo per fame ma per la guerra, la mia famiglia era benestante. Ci siamo fermati in Turchia, ma poi è diventato tutto difficile. Ho un amico in Germania, voglio andare da lui e ricominciare a studiare ingegneria». Fino a qui è la storia di moltissimi siriani che ho conosciuto sulle diverse frontiere, non mi meraviglio del suo racconto.
Yassir però riprende fiato per il rush finale, prima che arrivi il pullman che lo riporterà a Ventimiglia. «Ero in Slovenia con un mio caro amico, ci hanno fermato e preso le impronte. Volevamo andare via, ma eravamo in pieno lockdown e si sarebbero accorti facilmente di noi lungo le strade slovene».
«Alla fine il mio amico mi ha detto: “Io parto, ti aspetto in Italia”. Lo hanno trovato morto nei boschi due settimane dopo, vicino al confine di Trieste. Lo ha visto un elicottero dell’esercito sloveno. Questo è quello che ti volevo dire, che noi siamo stanchi e alla fine la morte arriva».
Resto paralizzato, sta arrivando il pullman e lui si rimette in spalla lo zaino, come se stesse andando a lezione. Vorrei fargli molte più domande, ma non ci riesco.
«Good luck» gli dico, nient’altro.
Da “Il gioco sporco” di Valerio Nicolosi, Rizzoli, 288 pagine, 19 euro. Il libro sarà presentato a Milano venerdì 20 gennaio, alle ore 18.30, nella Libreria Rizzoli della Galleria Vittorio Emanuele II, con Caterina Bonvicini e Cecilia Strada.