Che fine hanno fatto le parole? Cos’è andato storto e perché non le sappiamo più usare, capire, scegliere? Com’è successo che un tempo i cui abitanti passano le loro giornate a scrivere poi non capisca quel che legge? È colpa dei codici binari? Di Chernobyl o del Covid o di qualunque altra disgrazia cui vogliamo dar la colpa dell’averci lasciati tutti scemi? C’entrano i cellulari, i social, i buoni libri con cui c’instagrammiamo senza capirli?
No, non sto parlando di Renzi che dice a Natalia Aspesi che il fatto che Bettini sia considerato un intellettuale «dice molto della crisi del Partito democratico, oltre che della lingua italiana». Ha ragione – e mi piace sempre molto quando, cedendo al D’Alema che dorme in lui, si compiace delle proprie battutacce – ma la battuta che ha ucciso la precisione lessicale in queste festività è un’altra.
Oggi sono sei giorni da quando Greta Thunberg ha scritto un tweet, senza pensare – almeno credo – che quel tweet sarebbe diventato la pedina iniziale di quei video che si vedono su Tik Tok, un domino di cose in equilibrio che a migliaia vengono fatte cascare dando una schicchera al primo oggetto. Se avete passato le vacanze su Marte, breve riassunto del prologo.
Andrew Tate è uno che nessuna persona normale conosceva fino a sei giorni fa, già campione di kickboxing, già pare noto maschilista (che ormai pare sia una qualifica professionale), e forse già stupratore. Greta Thunberg è una ragazzina che il venerdì invece di andare a scuola protestava contro la disattenzione al cambiamento climatico (era prima che a tal scopo ci si desse al lancio di zuppe nei musei).
Tate – trentaseienne, quasi adulto, comunque meno lattante della Thunberg – ha il pisello abbastanza piccolo, e relativi complessi, da decidere sette giorni fa d’indirizzare alla Thunberg un tweet in cui fa benzina a una macchina che, mi perdonerete, non sono in grado di riconoscere, ma intuisco essere costosa. Ho un amico il cui padre rifiutava di far benzina da solo perché gli sembrava svilente, un po’ come gli ex aristocratici che digiunano pur di non servirsi a tavola da soli. Non ho la patente ma farei uguale: i libri da scemi che mandavo a memoria da piccina s’intitolavano “La vera donna non fa benzina da sola” e “Il vero uomo non mangia quiche”. Chissà se Tate mangia quiche. Ma non divaghiamo.
Alla foto è allegato un breve testo descrittivo di alcune delle trentatré automobili di sua proprietà (speriamo non debba rinnovare i bolli da solo); e la richiesta alla signorina Thunberg di fornirgli il di lei indirizzo per mandarle una lista completa della sua collezione d’automobili e delle di esse «enormi emissioni» (se non è cazzo piccolo questo).
Il giorno dopo, Thunberg risponde con un tweet destinato a monopolizzare la conversazione dell’internet in un periodo in cui c’è il panettone da digerire e mica ci si può applicare troppo intellettualmente. Dice che la mail gliela può mandare a smalldickenergy chiocciola getalife punto com. Perché la battuta fosse precisa avrebbe dovuto capovolgerla, qualcosa tipo «mandamela, e poi ti rispondo al tuo indirizzo sivedechehaiilcazzopiccolo chiocciola fattiunavita punto com», giacché messa così sembra che a fotografarsi col macchinone come diversivo dal contenuto delle mutande sia Greta stessa – ma è un’attivista adolescente, mica Chris Rock. E comunque la battuta va benissimo anche da imprecisa: si capisce quel che basta a intrattenere noi e innervosire Tate.
Che quindi le risponde con un delirante video durante la registrazione del quale gli portano due pizze, e forse dall’indirizzo della pizzeria (o forse no) viene rintracciato dalla polizia romena e arrestato perché c’era un mandato di cattura per stupro. Ma questa è la parte che riguarda i fatti, e qui ci interessano le parole.
Come ogni volta che qualcuna dice a qualcuno che ha il cazzo piccolo, si levano proteste: è body shaming, puntesclamativo, non ci abbassiamo al loro livello, puntesclamativo, si può insultare qualcuno per come è e non per come è fatto il suo corpo (come se il cervello non fosse un organo del corpo, puntesclamativerei io). Ma, siccome Greta Thunberg è la reginetta dei buoni, non la si può accusare d’un’infamia quale viene reputato il body shaming. Tocca trovare il modo di difenderla.
Siccome i buoni, esattamente come i cattivi, ci sanno fare pochino con le parole, non dicono l’ovvio: sarebbe body shaming se lei ci fosse stata a letto, se l’avesse visto nudo, se sapesse per certo che ce l’ha piccolo. C’è una differenza importante tra la fragilità (ipertrofica) maschile e quella (più moderata) femminile rispetto a questo genere di epiteti: il corpo delle donne si vede. Che sono una vescica di lardo lo sai anche se mi hai vista solo da lontano. Se uno ha una vergogna nascosta nelle mutande lo sa solo lui (e le poverine che quando lo scoprono sono troppo beneducate per chiamare un taxi).
Ma, esattamente come ci hanno insegnato che se una si sente bella poi sarà più bella, se uno sa di avere un trofeo nelle mutande avrà, rispetto al mondo, un atteggiamento diverso da quello di chi nelle mutande ha una vergogna di cui spera non si sparga mai la voce. È da questo incontrovertibile ragionamento che è nata, qualche anno fa, l’espressione big dick energy: la sicumera di chi si aggira per il mondo senza alcun timore che si venga a sapere del vanto che ha nelle mutande, anzi incoraggiandone l’esplorazione. Small dick energy è il suo contrario. È un’ovvietà, ed è anche un’espressione che chiunque abbia qualche consuetudine con la pubblicistica anglofona conosce. Almeno così vi avrei detto fino a Natale.
Però è arrivato il caso Thunberg, e le orde d’inattrezzati difensori che non capiscono l’uso delle lingue, né quello delle figure retoriche, né la selezione delle fonti, né l’inglese, né l’italiano, ma sono determinati a spiegarci il mondo. Small dick energy non ha nulla a che vedere con le misure del suo pene, ribadivano senza mettersi a ridere, me l’ha detto mio figlio perché è un’espressione dei giovani, spiegavano sempre mantenendo invidiabile serietà (dire con la faccia convinta enormi puttanate è un’arte sottovalutata); mentre io pregustavo tutte le prossime volte in cui chiederò «ma hai le tue cose?» a una donna di malumore, e nessuno potrà dirmi che quella battuta ha a che vedere col ciclo mestruale.
Gente che ha continuato stolidamente a togliere l’accento a «sé stesso» non avendo mai non dico letto Serianni, ma neanche fatto una foto a una sua intervista, pubblicava con quella che credeva essere autorevolezza lo screenshot di «Turaligo» (e io che pensavo che Vongola75 fosse sufficientemente iperbolico) che, su un dizionario di gergo ovviamente scritto da autori dilettanti per lettori non disposti a pagare, giurava che l’insulto «pisello piccolo» non avesse «niente a che vedere» con le misure del pisello.
Ho per un attimo pensato di rispondere, a «vivo nella capanna di Unabomber e fino a ieri non avevo mai incontrato la dick energy ma mio figlio ha 13 anni e mi giura che il cazzo non c’entri e i tredicenni salveranno il mondo non noi che non sappiamo le lingue», cosa mi evocava quella ricerca della metafora perduta.
Quel carpiato per non dire le parole ovvie e cercarne di elaborate che celino il tuo disagio ricordava tantissimo quel personaggio che, svegliato troppo presto, rispondeva non con le parole che gli venivano in mente ma con un lessico che «esigeva da me lo stesso sforzo d’equilibrio necessario a chi, saltando da un treno in corsa e correndo per qualche secondo lungo la strada ferrata, riesca tuttavia a non cadere». Poi sono stata zitta. Ho pensato che li avrei costretti a cercare Proust su un’enciclopedia scritta da autori dilettanti per lettori non disposti a studiare, e sarebbe stato contrario allo spirito del tempo: quello perduto, e quello presente.