La seconda cosa che ho fatto ieri mattina al risveglio è stata accendere la tv e pensare: ma basta. Non potete costringermi a scrivere una volta al mese lo stesso articolo sulla cialtronaggine dei sindaci che invece di amministrare fanno le soubrette.
Da Fiorello era ospite il sindaco di Roma, che suonava la chitarra, e figurati se non gli arrivava il messaggio video del sindaco di Milano, figurati se – come tutti i vegliardi del mondo infantilizzato in cui viviamo – questi non pensano di doverci ricordare che sono vivi facendo i giullari, invece che amministrando.
Un attimo dopo, il giullare-in-chief, Fiorello, preveniva la mia obiezione dicendo sindaco, adesso diranno che lei sta qui a svagarsi invece di lavorare, e io guardavo lo schermo e pensavo stai a vedere che adesso sono io che devo sentirmi banale se noto quanto sono cialtroni, mica loro a doversi imbarazzare della loro cialtroneria.
La prima cosa che avevo fatto al risveglio era stata scorrere le notizie, e scoprire che era morta Kirstie Alley, che venticinque anni fa distrusse il mio rapporto con la psicanalisi nella più esilarante scena del più stronzo film di Woody Allen, Harry a pezzi.
Nel film Allen e Alley sono sposati, lui è uno scrittore e lei una psicanalista, lo studio in cui riceve i pazienti è una stanza della loro casa. E un giorno stanno litigando: lei ha scoperto che lui si è scopato una delle sue pazienti, e mentre litigano arriva il tizio che ha la seduta a quell’ora, e lei lo fa stendere sul lettino.
Il paziente è perfetto, cicciotto e sudato, mite e con problemi infinitesimali ma per lui pressantissimi, le parla del cognato e quella pensa solo alle proprie corna, e inizia a fare avanti e indietro tra lo studio e la stanza dov’è rimasto il marito, dicendo all’uno di continuare pure a parlare ché lei lo ascolta e all’altro che se ne deve andare di casa, e il paziente è sempre più ansioso, e l’analista è sempre più isterica, e magari con quella sceneggiatura lì sarei una grande attrice persino io, ma Alley era gigantesca nella parte della cornuta indignata, della professionista dell’equilibrio psichico che in un istante diventa squilibrata.
Woody Allen, nell’altra stanza ma pure in tutte le altre scene del film, era un sindaco del secolo successivo, un cialtrone irredento, uno che proprio non capisce perché tutti se la prendano con lui solo perché è inattendibile e bugiardo e vanesio e inetto: «Ma secondo te farmi fare un pompino da una tettona di ventisei anni è una cosa che mi fa piacere?».
Quando la moglie gli chiedeva perché diavolo, con tutte quelle che poteva scoparsi, proprio una sua paziente, rispondeva: «Chi altro incontro, io: vivo qui, lavoro in questa stanza, abbiamo il bambino, e tu sei sempre di là a esercitare, non vediamo mai nessuno». «Adesso dai la colpa a me perché non frequentiamo abbastanza posti dove tu puoi incontrare sconosciute da scoparti?», trasecolava Kirstie Alley, incarnando tutte noi mai state con uno che alzasse l’asticella della stronzaggine abbastanza da recriminare per le corna che ci aveva fatto.
Woody Allen era tutti i mediocri a caccia di scuse dentro e fuori la Rai, quelli che mugugnano perché a Fiorello danno tutto quello che vuole, perché quando Fiorello vuole una fascia oraria sbaraccano chi la occupava (ma tu pensa, chissà come mai), perché coi budget di Fiorello sarei Fiorello anch’io (certo, ora però prendi le goccine).
La nuova versione della sua edicola al bar non è più al bar, com’era fino a venerdì scorso su Instagram. Se conosco i miei polli, è perché la Rai avrebbe dovuto fare un bando tra bar prima di poter trasmettere proprio da quello (nessun Boris, nessuno Zalone, niente renderà mai ridicola la realtà della burocrazia italiana quanto può farlo la mera cronaca). È più ricca, lo si vede da tanti dettagli, tra cui il fatto che ogni tanto Fiorello canta, e quando canta fa un paio di giravolte, e quindi nei titoli di coda appare l’impensabile: «Coreografie: Luca Tommassini». Non esattamente uno che si possa pagare in lupini e olive.
La prima volta che ho sentito recriminare sui budget di Fiorello c’era ancora la lira, ed era proprio in via Asiago, dove ora hanno ricostruito i finti tavolini di bar dai quali trasmettere Viva Rai 2. Non so oggi, ma all’epoca quel palazzo era una centrale con la cui energia rancorosa si sarebbe potuta illuminare la città. Tutti quelli che facevano la radio volevano fare la tv, tutti quelli che erano lì sentivano di meritare d’essere altrove, tutti gli scarsi si percepivano geni. E tutti mugugnavano perché ah, certo, ora che è arrivato Fiorello per lui il budget c’è.
Passati più di vent’anni, gli stessi, invecchiati, ieri mugugnavano per la copertura stampa dell’esordio di Fiorello (che – come sempre gli accade quando prende il posto di qualche talento autocertificato – ha decuplicato il pubblico che racimolavano i segnaposto che ha sfrattato dal palinsesto, e vorrei pure vedere: è Fiorello). Nella patria dell’assenza di star system, non mi pare così sorprendente che, quando si trovano davanti Fiorello, i giornali lo trattino come il figlio naturale di Mina e Frank Sinatra.
Nel secolo in cui persino i sindaci ambiscono a essere star system, non voglio pensare quante candidature riceverà la redazione di Fiorello; quanti sindaci, invece di tappare le buche, vogliano andare al varietà del mattino presto a dire certo che tapperemo le buche; quanti staff smanieranno perché il loro amministratore locale possa avere uno strapuntino di fianco a Fiorello – che, anche se ti fa fare la figura del coglione, è comunque una figura da coglione simpatico, da coglione che sta al gioco, da coglione illuminato dal più ambìto dei riflettori, nel barnumiano secolo in cui non esiste la cattiva pubblicità, l’importante è farsi notare.
No, mi sono sbagliata. In Harry a pezzi, i sindaci esibizionisti non sono il personaggio di Woody Allen. Sono il personaggio del cognato, quello che vive «nell’insana illusione di piacere alla gente».