Al gennaio del 1788 risale La battaglia K 535, contraddanza composta da Mozart un mese prima che Giuseppe II dichiarasse guerra ai turchi. Il clamore della percussione «alla turca» e il penetrante suono dell’ottavino che attraversano le trame di questa svagata musica da ballo, destinata proprio a quell’imperatore, ne erano quindi il preannuncio, tant’è che la Wiener Zeitung ribattezzò la modesta composizione mozartiana col titolo L’assedio di Belgrado.
Era infatti quello il «grosser Schall» che si era impresso minacciosamente nella memoria dei viennesi fin dall’assedio subìto dalla capitale asburgica nel 1529, quando le cronache riferivano della presenza fragorosa nell’esercito ottomano di una banda di trombe, zampogne, tamburi, piatti, campanelli e triangolo.
Trombe, pifferi e tamburi sono sempre stati in prima fila nelle armate a incitare i soldati all’assalto. Niccolò Machiavelli non mancò di considerare tale componente nel trattato intitolato L’arte della guerra, in cui Fabrizio, dialogando con Cosimo, afferma:
«Vorrei che ciascuno connestabole avesse la bandiera e il suono. Sarebbe pertanto composto uno battaglione di dieci battaglie, di tremila scudati, di mille picche ordinarie, di mille estraordinarie, di cinquecento veliti ordinarii, di cinquecento estraordinarii; e così verrebbero ad essere seimila fanti, tra quali sarebbero mille cinquecento capidieci e, di più, quindici connestaboli con quindici suoni e quindici bandiere, cinquantacinque centurioni, dieci capi de’ veliti ordinarii, e uno capitano di tutto il battaglione, con la sua bandiera e il suo suono.
[…] Vuolsi adunque che la prima e ultima fila d’ogni centurie sieno capidieci; il connestabole con la bandiera e con il suono stia nel mezzo della prima centuria degli scudi; i centurioni in testa d’ogni centuria ordinati».
In tale trattato, stampato nel 1521 e dedicato al cardinale Giulio de’ Medici, queste considerazioni si collegano allo sfoggio di sapienza umanistica, tanto da riprendere pari pari dalle antiche testimonianze il racconto degli inverosimili effetti prodotti dalla musica nelle contese:
«Deono adunque i fanti camminare secondo la bandiera e la bandiera muoversi secondo il suono; il quale suono, bene ordinato, comanda allo esercito; il quale, andando con i passi che rispondano a’ tempi di quello, viene a servare facilmente gli ordini. Onde che gli antichi avieno sufoli, pifferi e suoni modulati perfettamente; perché, come chi balla procede con il tempo della musica e, andando con quella, non erra, così uno esercito, ubbidendo nel muoversi a quel suono, non si disordina.
E però variavano il suono, secondo che volevano variare il moto e secondo che volevano accendere o quietare o fermare gli animi degli uomini. E come i suoni erano vari, così variamente gli nominavano. Il suono dorico generava costanzia, il frigio furia; donde che dicono che, essendo Alessandro a mensa e sonando uno il suono frigio, gli accese tanto l’animo, che misse mano all’armi. Tutti questi modi sarebbe necessario ritrovare; e quando questo fusse difficile, non si vorrebbe almeno lasciare indietro quegli che insegnassono ubbidire al soldato; i quali ciascuno può variare e ordinare a suo modo, pure che con la pratica assuefaccia gli orecchi de’ suoi soldati a conoscerli. Ma oggi di questo suono non se ne cava altro frutto in maggiore parte, che fare quel rumore».
Al di là dei dotti riferimenti, vi risalta l’importanza che Machiavelli attribuiva alla musica nella funzione simbolica, in combinazione con il vero simbolo rappresentato dalla bandiera. Oltre al ruolo incitante nel combattimento, essa era chiamata quindi a costituire un emblema in cui riconoscersi, da cui trarre la forza di sentirsi uniti per raggiungere un fine comune.
Nel prosieguo delle sue argomentazioni egli entra anche nel dettaglio, a differenziare in modo stupefacente vari tipi e gradi di interventi sonori. Così nel dialogo di Fabrizio con Luigi leggiamo: «E, perché l’importanza di questo comandamento dee nascere dal suono, io vi dico quali suoni usavano gli antichi. Da’ Lacedemoni, secondo che afferma Tucidide, ne’ loro eserciti erano usati zufoli; perché giudicavano che questa armonia fusse più atta a fare procedere il loro esercito con gravità e non con furia. Da questa medesima ragione mossi, i Cartaginesi, nel primo assalto usavano la citera. Aliatte,re de’ Lidi, usava nella guerra la citera e i zufoli; ma Alessandro Magno e i Romani usavano i corni e le trombe, come quelli che pensavano, per virtù di tali istrumenti, potere più accendere gli animi de’ soldati e fargli combattere più gagliardamente.
Ma come noi abbiamo, nello armare lo esercito, preso del modo greco e del romano, così nel distribuire i suoni serveremo i costumi dell’una e dell’altra nazione. Però farei presso al capitano generale stare i trombetti, come suono non solamente atto a infiammare l’esercito, ma atto a sentirsi in ogni romore più che alcuno altro suono. Tutti gli altri suoni che fussero intorno a’ connestaboli e a’ capi de’ battaglioni, vorrei che fussono tamburi piccoli e zufoli sonati, non come si suonano ora, ma come è consuetudine sonargli ne’ conviti. Il capitano adunque, con le trombe, mostrasse come quando si avesse a fermare o ire innanzi o tornare indietro, quando avessono a trarre l’artiglierie, quando muovere gli veliti estraordinarii, e, con la variazione di tali suoni, mostrare all’esercito tutti quegli moti che generalmente si possono mostrare; le quali trombe fussero di poi seguitate da’ tamburi. E in questo esercizio, perch’egli importa assai, converrebbe assai esercitare il suo esercito. Quanto alla cavalleria, si vorrebbe usare medesimamente trombe, ma di minore suono e di diversa voce da quelle del capitano».
Per quanto oggi siamo poco propensi a comprendere e ad accettare tale tipo di teorizzazione, non possiamo sottrarci alla constatazione ne del fascino dei suonatori scozzesi di cornamusa segnalati fin dal XIV secolo, nella Battaglia di Bannockburn. Di quelle antiche teorie, nella concreta dimostrazione di una capacità motivante al combattimento, essi sono infatti più di un riflesso. Li ritroviamo a Waterloo e nella guerra di Crimea a incitare i soldati all’attacco con effetto galvanizzante.
Nella Prima guerra mondiale non solo furono presenti nella sanguinosa offensiva della Somme, ma comparvero su tutti i fronti in cui era impegnato l’esercito britannico, sia su quello occidentale sia in Russia, in Macedonia, in Turchia, in Egitto, in Palestina, in Mesopotamia e perfino in India, con un tributo di sangue che ne vide 500 uccisi e 600 tra feriti e invalidi, provenienti, sì, dai reggimenti scozzesi ma anche dai numerosi battaglioni anzacs (giunti da Australia, Nuova Zelanda, Africa e Canada).
La diramazione coloniale della Gran Bretagna fece sì che troviamo le pipe bands anche nelle truppe di filiazione scozzese che facevano capo ai sikh, ai gurkha, ai pathan e droga al servizio della corona. Nella Seconda guerra mondiale intervennero a El Alamein, a Dieppe, sulle spiagge della Normandia e nell’attraversamento del Reno. Persino nella Seconda guerra del Golfo in Iraq (2003), quando lo spazio acustico della battaglia era saturato dai suoni meccanici dell’arsenale tecnologico e dall’assordante scoppio delle bombe, nelle compagnie scozzesi c’era ancora posto per l’accompagnamento di pungenti cornamuse.
Era quella in fondo anche la declinazione occidentale della banda dei giannizzeri, procedente di pari passo con stragi di teste tagliate e terra bruciata, che fu per l’Europa il terrorizzante annuncio sonoro di barbarica invasione. Si tratta di una fama radicata e testimoniata a vari livelli.
Da “Il suono della guerra” di Carlo Piccardi, Il Saggiatore, 688 pagine, euro 36,00.