Non ho mai partorito, maIl dramma del metodo scientifico nel facinoroso mondo dei social

Il neonato morto in ospedale ha fatto emergere plotoni di picchiatelli che su Twitter e Instagram praticano epistemologia identitaria, mistica della maternità e se-non-sei-madre-non-puoi-capire

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Non ho mai partorito, ma una volta, alle quattro di mattina, una neurologa che mi stava per fare una tac mi disse che lei non lo sapeva ancora, se avessi avuto un ictus, ma comunque non avrebbe potuto applicare il protocollo perché, acciocché sia efficace, quel protocollo di cura va somministrato entro tot ore, che erano più di quelle lungo le quali infermieri e dottori mi avevano mollata nella sala d’attesa del pronto soccorso.

Non ho mai partorito, ma alla vigilia d’un intervento (in clinica privata) per l’endometriosi ho detto all’anestesista (donna) che non volevo la spinale (mio padre era anestesista, e la sua storia del terrore preferita era la paralisi se ti sbagliano la spinale: grazie papà, tu sì che hai saputo lasciarmi i tabù giusti). Un attimo prima che entrassi in sala operatoria, la stronza è venuta a insistere, eh ma sennò poi devo farle più morfina, ma mi faccia la morfina e si faccia i cazzi suoi – che adesso lo dico perentoriamente ma lì singhiozzavo come chi è nella posizione di debolezza di una che ha paura pure dei prelievi di sangue e stanno per aprirle la pancia.

Non ho mai partorito, ma ho nel telefono dei filmati di una delle volte in cui sono stata in un pronto soccorso, nessuna delle quali per fortuna per cose letali. Ho dei filmati perché non c’era campo telefonico ma c’era il wifi (grande metafora di non so bene cosa), e agli amici preoccupati mandavo filmini della gente mollata assieme a me in una specie di deposito corpi non diagnosticati, molti (corpi) dei quali urlavano ininterrottamente.

Siete mai stati in un pronto soccorso? Urlano tutti, e nessuno fa quel che, se non sei mai stato in un pronto soccorso, ti sembra normale e naturale fare se qualcuno già malato urla: accorrere.

Medici e infermieri non accorrono perché sanno che sono falsi allarmi? Forse, ma poi ci sarà l’uno su mille che ha una vera emergenza (e pure se non ce l’ha: una volta una signora dall’apparente età di centoventi anni ha urlato che voleva l’acqua così a lungo che se ci ripenso mi sale la sete e l’angoscia e la voglia di prendere a schiaffi l’infermiera che poco più in là chiacchierava di linee di autobus con un’amica passata a trovarla).

Non accorrono perché se non hai tre dita di pelo sullo stomaco come diavolo fai a stare in mezzo a gente che sta male tutto il giorno e a non farti venire l’esaurimento? Forse. Mio padre, quando da piccola a cena mi lamentavo di qualcosa, rispondeva: che vuoi che sia, oggi abbiamo operato uno col cancro, l’abbiamo aperto e richiuso – e lo diceva col tono con cui io riferisco che Glovo mi ha portato il pranzo freddo.

E quindi questo non è un articolo sulla tizia il cui neonato è morto perché la mistica della maternità è persino più pervasiva di quella della bellezza, non lo è perché quel che c’è da dire sulle responsabilità del sistema l’ha già scritto Assia Neumann, ma soprattutto non lo è perché io non sono abbastanza sensibile da pensare al bambino morto: io penso alla madre viva, a una madre che ha per distrazione ucciso il figlio, al plotone di psicologi che spero le abbiano messo intorno, a una tragedia che persino Euripide o Sofocle avrebbero qualche remora a immaginare.

Non ho mai partorito, ma non è per questo che non parlo di come sarebbe meglio accudire le madri. Anzi, vi dirò: questa deriva dell’epistemologia identitaria non è la soluzione, è il problema.

Ormai siamo abituate, e quindi quasi non ci fa impressione la diffusa modalità per cui è autorizzato a parlare solo chi ha subìto il problema. L’altro giorno ho visto un filmato in cui una militante dell’Instagram sosteneva che se sei contrario all’aborto ti basta non abortire. Sotto, commenti d’entusiasta condivisione di questa miseria dialettica.

Non sarebbe un problema (il mondo è sempre stato costituito più da gente inabile dialetticamente di quanto lo fosse da Christopher Hitchens), non fosse che a quella militante lì la tv dà uno spazio per dire la sua sull’attualità, che per quella militante lì le case editrici stanno facendo un’asta per farle rilegare i suoi penzierini e farne un’intellettuale, una filosofa, una che legittimamente può sentirsi pensatrice di professione, una di quelle che gli americani chiamano pomposamente published author. Una che fa il mio stesso mestiere, che il dio del fare fatturato purchessia fulmini gli editori.

Quindi, se una troppo scema per capire che chi è contro l’aborto pensa si tratti di assassinio, e per questa metà della popolazione dire «e allora non farlo» è come dire che non servono leggi contro la pedofilia, «se sei contrario, non scoparti i bambini», se una così è una che io dovrei considerare interlocutrice alla pari, non è che possiamo prendercela con le disgraziate qualunque.

Disgraziate qualunque che ieri, a commento del dibattito sul neonato morto e le ostetriche stronze e le madri stanche e il sistema che non funziona, twittavano elogi ai loro ginecologi che ammettevano di non sapere niente del parto essendo (orrore) maschi che non l’avevano «vissuto per esperienza diretta».

Se non scartassi molti interventi social pensando «ma questo può essere un articolo» (e molti articoli pensando «ma questo può essere un libro»), avrei risposto alla signora che l’epistemologia identitaria, ovvero l’idea che il ginecologo conosca ciò che ha vissuto e non ciò che ha studiato, ci ha portate fin qui: alla mistica della maternità, del se-non-sei-madre-non-puoi-capire, dell’allattamento al seno che guai se non lo fai, come vivessimo nella foresta e al neonato servissero anticorpi a infezioni che il Napisan e gli antibiotici non conoscono.

Non ho mai partorito e non ho mai voluto figli, ma solo per caso non mi è capitato quel che accade a molte (saltate queste righe se la vostra identità di madri è una vocazione religiosa): d’innamorarmi di uno che i figli li vuole, e di assecondarlo.

In quel caso sono però abbastanza certa di come sarebbe andata, con la sicumera che ho quando non sono sul tavolo operatorio: li avrei adottati. Questo nella migliore delle ipotesi: ho un’amica di buoni studi e apparente equilibrio psichico che è quasi morta di parto perché, nonostante si sapesse che aveva molti problemi, il marito ci teneva troppo che il figlio avesse il suo dna per optare per l’adozione. Sì, in questo secolo.

Nell’ipotesi in cui anch’io fossi stata accondiscendente come la mia amica, e ridotta quindi alla gestazione, poi però cesareo e latte artificiale. Invece di pensare che la qualità della vita delle madri la faccia lo stipendio alle casalinghe, iniziamo a pensare che non è normale, nel ventunesimo secolo, farsi squarciare le innominabilità da quattro chili d’essere vivente e farsi sanguinare i capezzoli per nutrirlo. Si è sempre fatto così? Eh, si è anche sempre andati a cavallo e morti di vaiolo: ci si evolve.

Però. Però a me piacerebbe dire, come dice Eugenia Roccella, «Non credo che le donne siano deboli» – ma mentirei, considerata la mia amica che quasi muore perché il padre del feto vuole il sangue del suo sangue e le piume delle sue piume, considerate quasi tutte le donne che osservo da tutta la vita.

Credo invece che le donne siano abituate a considerare la debolezza uno strumento seduttivo, e che quindi i figli vengano lasciati con una madre esausta sì perché le linee guida sono una puttanata (ho solo dodici parole per voi: ma voi ve lo ricordate come l’Oms ha gestito la pandemia?), sì perché sono appunto esauste, ma anche per la ragione per cui le donne non chiedono più soldi al datore di lavoro: perché preferiscono essere benvolute che averla vinta. L’ha scritto ieri Assia, ed essendo mitomane sono convinta l’abbia capito osservandomi: il brutto carattere ti salva la vita (e il fatturato).

Sì, lo so che non posso liquidare l’Oms in quella parentesi. Lo so che c’è un problema di valutazione del principio di autorità, che nei secoli scorsi era dato dal fatto che i medici erano quelli che avevano studiato, e noi eravamo quelli che zappavano la terra e non avevamo gli strumenti culturali per metterli in discussione. In questo, di secolo, c’è stato un carpiato del dibattito culturale: siamo quasi tutti laureati, e tutti terrorizzati di dire che i medici sono incapaci. Un po’ perché la categoria è stata santificata dai sacrifici-fatti-durante-la-pandemia (cioè: dall’aver fatto né più né meno che il suo lavoro); un po’ perché nessuno vuole sembrare il picchiatello laureato all’università della vita che pensa di saperla più lunga di chi ha studiato la materia. Ma la materia sua l’ha studiata anche Orsini: nell’epoca in cui la laurea è più diffusa dei tatuaggi, mi pare evidente che non basta a certificare alcuna competenza (una laurea italiana, poi: un paese dove 30 può prenderlo anche uno che non conosce l’ortografia).

Oltretutto, diversamente dall’ingegnere che se progetta un ponte che poi crolla è proprio asino, il medico procede per tentativi: i metodi di cura cambiano nel tempo, e anche questo è un problema comunicativo. Meno di un anno fa l’ostetrica a capo del Royal college of Midwives si è scusata perché la linea-guida che pretendeva meno parti cesarei (negli ospedali inglesi fare più parti naturali faceva crescere la valutazione della struttura) aveva preso una deriva ideologica, non ti facevano il cesareo neanche se era l’opzione più sicura, e ne erano ovviamente derivati casi così agghiaccianti che non sto a descriverveli.

Il metodo scientifico è prendere una decisione, vagliarne i risultati, cambiare idea. Il metodo social è dire «no ma noi non abbiamo mai detto che i vaccini non vi avrebbero fatti ammalare», come gli archivi dei giornali non fossero a disposizione di tutti, perché ammettere che la medicina è una scienza inesatta – e che un vaccino progettato in tre quarti d’ora lo scopri vivendo che limiti ha, e cara grazia se ti evita di crepare – non appare una linea spendibile nell’epoca dei picchiatelli saperlalunghisti.

E quindi?, chiederanno coloro che non mi hanno mai letta e pensano di trovare risposte, oltre alle domande, in questo prolisso sproloquio. E quindi io mica lo so come se ne esce. So come non se ne esce: invocando epidurali fuori orario come se non servissero soldi per assicurarle (la polemica e le campagne elettorali, nel tempo che viviamo, sono due passatempi accomunati dal fatto che chi le fa non tiene mai conto del fatto che le risorse sono una quantità limitata). E so che per fortuna non ho mai partorito. Per fortuna ho sempre avuto un carattere così brutto che nessuno si è intestardito a volerlo far ereditare alla sua prole. Per fortuna, per il brutto carattere, non serve allocare un budget.

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