Le sue note luminarie sono l’atto conclusivo di azioni artistiche in cui ha coinvolto oltre sette milioni di persone in tutto il mondo: dalla sfilata di Dior a Lecce al Palais de Tokyo di Parigi. Il suo gesto artistico in cui centrale è il movimento del corpo diventa sempre uno strumento per liberare energia in modo corale e partecipativo.
Dipinti, collage, video, fotografia, ma soprattutto da dieci anni il nome di Marinella Senatore (1977) è collegato alle installazioni artistiche luminose, che completano le azioni artistiche e che fanno parte del grande progetto e piattaforma SOND (The School of Narrative Dance). Complice un’ottima galleria (Mazzoleni) e una intelligente gestione manageriale del proprio estro creativo, l’artista vive un momento d’oro: le sue opere e performance sono state esposte e commissionate da istituzioni italiane e internazionali, tra le quali il Kunsthaus di Zurigo il Palais de Tokyo a Parigi e il Museum of Contemporary Art of Chicago. Alla sua definitiva consacrazione mancherebbe “soltanto” un Padiglione alla Biennale di Venezia (a cui ha comunque partecipato nel 2011). Un traguardo che potrebbe arrivare molto presto.
Marinella Senatore, campana per nascita, vive – non sempre – tra Roma e Londra; lei stessa si definisce una “nomade per l’arte”, che è la sua vita. Ha studiato musica classica (violino), cinema e arte. Se il “grande pubblico” la ama e la riconosce per le sue gioiose – a tratti ludiche – luminarie, il mondo del collezionismo brama i suoi collage. Dietro questo successo c’è – ed è il bello della sua arte – una profonda riflessione e impegno sociale a tutto tondo.
Sebbene sia una donna molto consapevole del suo successo e del ruolo – come artista e come essere umano – a cui aspira, risulta sempre lieve e garbata nell’approccio. L’abbiamo incontrata per conoscerla meglio… al di là del luccichio delle sue opere.
Non tutti sanno che hai cominciato con la pittura e con i collage, che continui a fare e che sono molto ricercati dai collezionisti più raffinati. Come si conciliano le tue tante pratiche artistiche a prima vista così diverse?
«Marinella Senatore (MS): Tutto è un collage. La mia, la tua vita lo è. Credo ci sia molta poesia nel mio modo di vivere e questo traspare in tutto quello che faccio. Da sempre realizzo collage. Mi piace quando un collezionista viene per prendere una luminaria e poi va via con un’altra opera, perché vi riconosce la profonda coerenza che c’è. Nei collage metto tutta me stessa, perché io penso in modo rizomatico e in questa tipologia di lavori si vede come il mio cervello funziona su più livelli e in che modo collego e associo tutti gli aspetti della vita e della realtà che mi circonda».
In un mondo fluido in cui è complesso dare etichette, tu come ti vedi e come definisci il tuo lavoro?
«Sono un’artista visiva, multidisciplinare per vocazione. Musica classica, cinema, arte, ma anche corpo, movimento, scena teatrale. Per me tutto rientra nella pratica artistica. Ammetto poi di essere molto fortunata, perché sono una persona da sempre caratterizzata dalla forte energia: il mio cervello funziona bene, quando è stimolato su più fronti. Certo lo studio fin da tenera età del violino e della musica mi ha plasmata: questa mia poliedricità è stata aiutata da una forte disciplina e rigore».
Nella tua arte si manifesta questa energia, che si libera prepotentemente nelle tue note Azioni, alla cui base c’è qualcosa di più della danza, un movimento corale quasi tribale e ancestrale.
«La mia arte è dare forma all’energia: è un veicolo e catalizzatore allo stesso tempo di energia, non solo mia ma collettiva. La mente è collegata al corpo e il mio gesto artistico cerca di riconnettere queste due dimensioni che la nostra società occidentale ha scisso, se non addirittura represso. Non sono né una ballerina né una sportiva professionista. Non è solo e tanto la coreografia ad interessarmi, quanto il movimento del corpo in senso molto ampio che va dai mindful movements (Movimento consapevole, ndr) alla somatica fino ad arrivare al Parkour e Krump. Nella mia arte è il movimento del corpo che fa riaffiorare qualcosa di noi, che rende possibile l’empowerment: la mia pratica artistica non nasce per essere terapeutica – anche se può diventarlo – bensì come processo di presa di consapevolezza di sé, con gli altri e grazie agli altri».
Come sei passata dal cinema alla videoarte alle azioni artistiche di SOND (The School of Narrative Dance)?
«È stato un divenire organico. C’è però un’opera che è stata game changer e a cui sono molto legata: Nui Simu del 2010. Dopo aver vissuto con una comunità di trecento ex minatori delle zolfatare di Enna (Sicilia) capii l’importanza del mio intervento e del processo creativo, dell’importanza e possibilità del cedere agli altri, rinunciando completamente alla finzione e al plot, per far emergere un gesto artistico autentico e partecipativo. Tornai in quei luoghi e da quelle persone per molto tempo: non riuscivo e non riuscivamo a staccarci da quell’esperienza, così unica e ricca di senso. Capii che era fondamentale strutturare un qualcosa di più: volevo preservare quello che avevamo fatto insieme, eravamo cresciuti e in qualche misura emancipati insieme, grazie all’azione gli uni degli altri. In fondo questa è la mia stessa concezione di scuola: un apprendimento reciproco costante, orizzontale e partecipativo, che fa evolvere le persone».
Nelle tue azioni oggi non c’è una struttura rigida né un copione: nascono e vivono nel e per un luogo e il suo contesto specifico: hai un approccio quasi antropologico… Ti adatti in modo mimetico?
«Negli anni ho maturato una sempre più grande flessibilità: arrivo e l’opera si crea, ma non è mimetica, c’è un prima, ma soprattutto c’è un dopo, la possibilità di un futuro diverso. Il mio ruolo autoriale nasce nel momento in cui lascio – non è una rinuncia – qualcosa di me per far entrare gli altri. Da questo incontro nascono infinite possibilità di empowerment. Ciò avviene spesso a partire dalla mia ammissione di “sapere di non sapere”: non ho mai studiato danza e non sono una sportiva professionista, eppure il movimento e il corpo sono elementi imprescindibili della mia arte. Io sono anche le mie mancanze e le mie lacune, che come tutti i milioni di persone che partecipano a SOND, si rivelano e risolvono attraverso la partecipazione degli “altri” nel movimento e in tutto quello che è accade in questi luoghi “riattivati”».
Come vivi questo cedere agli altri qualcosa, il tuo dare agli altri anche la possibilità di plasmare la stessa azione e persino le luminarie, che rimarranno al di là da essa. Ti ritrovi sempre alla fine nel “lavoro” concluso?
«Mi rivedo sempre nelle mie opere, anche la parte più intima è nei gesti condivisi con gli altri, perché li vivo anche io in primis. Il mio essere riecheggia in tante bocche e tante voci. Non sento perciò la mancanza di interiorità, anzi da sola avrei fatto lavori meno intimi: nell’essere tantissimi insieme si riesce a fiorire come individuo. L’empowerment a cui mi riferisco è proprio questa esaltazione dell’individuo che può emergere solo da un contesto collettivo riattivato in chiave non competitiva, ma collaborativa. Credo di aver capito ora che il mio posto nel mondo è proprio l’essere questo ri-attivatore di empatia e partecipazione, di cui gli altri sono parte non solo integrante, ma fondamentale».
Le tue Azioni si risolvono e concludono, come atto finale, alla presenza di luminarie, spesso plasmate e create in base ai contributi dei tanti “singoli” che vi partecipano. Dai vita così a una sorta di Piazza temporanea, luogo di incontro anche dove non c’è. Dopo la grandiosa sfilata di Dior (Lecce 2021) questa tipologia è quella che forse ti caratterizza maggiormente e che ti ha portato ad essere riconosciuta anche dal grande pubblico. Possibilità o schiavitù?
«È vero che questo tipo di lavoro è tra i più richiesti in modo trasversale al censo e al luogo, ma dobbiamo riflettere sul perché. Le luminarie sono così universali perché uniscono luce e colore, che da sempre sono elementi di celebrazione e condivisione, a partire dai riti religiosi fin dalle origini. Dal momento che questi momenti nascono per innescare un rinnovato senso di comunità non sono lavori ripetitivi, reinterpretano un senso primigenio di stare insieme proprio dell’essere umano. Ogni luogo dà forma a un’azione e una luce e un colore diverso. Ogni volta mi sorprendo nel vedere come sotto tali luci succede sempre un qualcosa… È uno strumento nelle persone che vivono lo spazio: così ci sono persone che improvvisano performance, che si danno appuntamento e persino ci sono state assemblee di condominio. Quella con Dior è stata un’esperienza unica, anche se faticosa a causa della pandemia… il mio lavoro dialogava perfettamente con il barocco leccese e mi piace la contaminazione tra diversi settori, perché tutto è arte e gesto creativo».
Franco Mazzucchelli, maestro delle azioni con i “gonfiabili” negli anni Sessanta e Settanta, sostiene che qualsiasi opera – anche quella nata per i più nobili fini etico/sociali – una volta appesa, diventi “bieca decorazione”. Il tuo lavoro, così collezionato in tutto il mondo non solo da musei, ma anche da facoltosi collezionisti, si allontana inevitabilmente dalla gente che l’ha creato insieme a te… diventa un “oggetto”, un’opera acquisita anche per moda, status, aspirazione. Come vivi tutto questo?
«Lo adoro. È stato importante confrontarsi con il mercato e dimostrare che anche il gesto e il movimento potesse essere collezionabile. A prescindere dalla ragione per cui un collezionista decide di acquistare e/o commissionare un mio lavoro, il mio gesto artistico si porta dietro e anche sulle pareti il contributo delle migliaia di persone che l’hanno fatto nascere. Perciò alla fine in casa e sulle pareti si conserva e si trasmette quell’energia che ha creato anche le luminarie… Non puoi possedere un mio lavoro e ignorare ciò che c’è dietro… è troppo evidente e troppo nota la “storia” delle opere e del mio attivismo, che mi accompagna sin da giovanissima».