Mi rimangio tutto quello che ho detto sulla presenza dei medici sui social. E no, non perché ho visto le foto della dottoressa aggredita durante un turno di guardia medica e quindi penso che i social siano utili a fare informazione. (Peraltro informarci che l’umanità è piena di malviventi aggressivi mi pare ridondante).
Mi pento e mi dolgo d’aver stigmatizzato l’esibizionismo dei dottori, ma la ragione è meno nobile. Portatemi le vostre copie di quel libro in cui irridevo le psicologhe che s’instagrammano in bikini o coi ringraziamenti ai fornitori di vestiti, come soubrette che scroccano abiti agli stilisti, e io ne strapperò le pagine. È tutta colpa dell’algoritmo cinese, della cui mancanza di privacy si occupano molto le persone serie, mentre io sono solo preoccupata che ci mettano la droga. Solo così si spiegherebbe l’effetto ipnotico di alcuni personaggi.
Il più ipnotico è un dietologo romano. Non credo nei dietologi: se sei una femmina adulta, sai abbastanza cose di alimentazione da non aver bisogno che un professionista ti dica che per dimagrire, col metabolismo della menopausa, devi mangiare un uovo e un finocchio scondito.
Poi è arrivato questo romano (romano, rendiamoci conto: guardo i video d’un romano) che prescrive diete chetogeniche (il modo in cui chiamano la Atkins in un mondo che ha bisogno di dare nuovi nomi ai vecchi passatempi). Sono così dipendente dai video del romano che, giuro, ho provato a prendere appuntamento per una consulenza on line.
Potrei dire che volevo far felice il mio cardiologo, che mi minaccia di morte imminente se non dimagrisco, ma la verità è che il dietologo di TikTok è irresistibile. Per fortuna il sito dice che non ha posto prima di febbraio: avrà il carnet di ballo affollato da ciccione come me che pensano di dimagrire con quello simpatico, che se ti leva i carboidrati lui allora soffri meno; per febbraio, spero che mi sarò disintossicata dai social e dai medici che lì sopra ti curano la psiche o la trippa o chissà che altro.
Per febbraio, chissà cosa sarà stato di M.S., lo scandale du jour di quattro giorni fa (che sull’internet contano come quattro secoli). S. – di cui non scrivo il cognome perché non voglio aiutarlo a fare ciò cui pare tenere tantissimo: sputtanarsi la carriera – è, a quel che dice la sua biografia su Instagram, uno specializzando impiegato presso il pronto soccorso di Ancona. Su Twitter, S. si chiama(va) la duchessa di York, cioè Sarah Ferguson, della quale ignoro cosa sappia un ventinovenne ma l’immagine del cui alluce ciucciato da un texano è cara a tutte noi vegliarde; ma ci volevano circa cinque secondi a risalire al suo nome su Instagram, e senza neppure il kit del piccolo detective.
L’altro giorno S., che su Instagram sta molto a petto nudo (molti anni fa mi spiegarono che questa esposizione della carne risponde al comandamento «chi mostra, vende»), ha pubblicato su Twitter due lastre. Chi ricorda lo scandale du jour che fu l’infermiere dell’hospice che aveva fatto un video simulando il vomito per il disgusto dell’aver dovuto cambiare un paziente, chi ha l’archivio degli scandali da un quarto d’ora l’uno già trema: quello fu l’unico che causò un vero licenziamento. Le lastre di S. mostra(va)no una sagoma di bottiglietta, inconfondibile anche per chi non fosse troppo esperto di design, all’interno d’un corpo umano.
Il testo che accompagna(va) dice(va): «Vita in Pronto Soccorso: stanotte giochi erotici finiti male (o meglio, in sala operatoria) ma che potevano finire peggio. [Paziente uomo, ultraquarantenne, durante rapporto con moglie la quale lo penetrava analmente con bottiglia di una certa marca]. La morale è: usate i sex toys conformi».
È una pigra domenica pomeriggio, il giorno successivo è il primo feriale dopo un’eternità: figuriamoci se l’internet non si precipita a chiedere la testa del colpevole d’indiscrezione a raggi x, che come minimo sarà già stato riconosciuto da un cognato (ah, ecco cos’era quella misteriosa sparizione, si stava facendo estrarre il Campari) e per i prossimi diciassette pranzi di Natale sarà lo zimbello della famiglia tradizionale.
S. (che mi auguro non si chiami davvero così, che mi auguro abbia un contratto a tempo indeterminato diversamente dall’infermiere dell’hospice) capisce tardi ma in fretta che si mette male (ma com’è che non ci pensate mai prima, benedetti ragazzi?), cancella il tweet e addirittura l’intero account.
Ed è a quel punto che è impossibile non farsi moltissime domande. La prima la rubo a Luca Bizzarri, volgendo in interrogativo l’affermazione che titola il suo podcast: non hanno un amico? Tutti questi geni del purissimo presente che pubblicano cose che li rendono il mostro del giorno, non hanno chat sulle quali di quelle cose ridere privatamente, come tutti noi?
Checché ne staranno ululando i moralizzatori che leggono quest’articolo, no, la differenza non è tra gli S. del mondo e chi ha la rigorosa etica, la sacra vocazione, e mai mai mai riderebbe d’un paziente: la differenza è tra chi è abbastanza furbo da farsi due risate in pausa sigaretta senza farsi linciare, e chi no.
La seconda è: siamo sicuri che quel dettaglio neurologico della corteccia prefrontale che finisce di formarsi a venticinque anni, età dopo la quale dovresti saper gestire gli impulsi, siamo sicuri di non volerlo rivedere? Da uno studio compiuto nel mio tinello, serve arrivare almeno fino ai trentacinque, per non essere completamente in balìa dei più scemi istinti.
La terza è: lo so che state pensando che voi no, non sperate che S. abbia un contratto a tempo indeterminato, voi sperate venga severamente punito. Ma siamo onesti: se a vent’anni ci avessero dato un telefono che faceva le foto, quanti ergastoli staremmo scontando?
L’ultima riguarda il dietologo di Roma, la psicologa in bikini, lo specializzando che twitta il Campari, un po’ tutti: certo, la divulgazione scientifica sui social può essere pericolosa per i pazienti più suggestionabili; ma è solo una mia impressione o quelli per cui presenta più rischi sono i medici che studiano dieci anni e poi, al primo telefono con telecamera, si scoprono incontinenti?