All’alba dei tempi, gli esseri umani soffrivano nel caos e nell’ignoranza (non è cambiato molto, quindi). Impietosito, Hwanoong, principe del regno celeste, discese sulla Terra a visitare il luogo nel quale si trova oggi la Corea e fondò la Città di Dio. All’interno della città elevò la razza umana, consegnandole leggi oltre che conoscenze su agricoltura, medicina e arti.
Un giorno Hwanoong fu avvicinato da un orso e da una tigre. Avevano assistito a quanto aveva fatto e, nel notare il modo in cui il mondo aveva cominciato a funzionare, desideravano mutare la propria condizione e diventare umani. Hwanoong promise loro che – se si fossero recati in una grotta, avessero evitato la luce del sole e mangiato solo manul (aglio) per cento giorni – li avrebbe trasformati in esseri umani.
Gli animali decisero di seguire le istruzioni ed entrarono in una grotta profonda. Trascorsi pochi giorni la tigre si ribellò. «È ridicolo tutto questo. Non posso vivere di bulbi puzzolenti e foglie amare. Me ne vado» disse e uscì dalla grotta. L’orso perseverò nella dieta e, trascorsi cento giorni, si trasformò in una bella donna, Woong-nyeo (donna orso). Woong-nyeo sposò Hwanoong ed ebbe un figlio che divenne il primo re della Corea, Dan-Goon. La mia nazione, la Corea, è stata letteralmente fondata sull’aglio, e si vede. […]
Se avete vissuto tutta la vita tra i garlic monsters, non potete rendervi conto di quanto aglio ingerite. È quello che mi è accaduto verso la fine del luglio 1986, quando, all’età di ventidue anni, mi sono imbarcato su un volo della Korean Air per iniziare i miei studi all’Università di Cambridge. […] Il trauma fu il cibo. In Corea ero stato avvisato (dai libri, dato che erano pochi i coreani a esserci stati) che il cibo in Gran Bretagna non fosse dei migliori. Ma non avevo compreso quanto scadente fosse in realtà. […]
La cultura alimentare britannica degli anni ottanta era, in una parola, profondamente conservatrice. Gli inglesi non mangiavano nulla di sconosciuto. Il cibo considerato straniero era visto con scetticismo quasi religioso e con una viscerale avversione. A parte il cibo cinese, indiano e italiano, completamente anglicizzato e in genere di qualità scadente, non si trovava una cucina alternativa, a meno che non si andasse a Soho o in un altro quartiere sofisticato di Londra.
Il conservatorismo alimentare britannico si incarnava per me nella catena Pizzaland, oggi scomparsa e allora imperante. Nel rendersi conto che la pizza poteva risultare traumaticamente «estranea», il menu attirava i clienti con l’opzione di una pizza condita con patate al forno.
Come in tutte le discussioni sull’estraneità, ovviamente, questo atteggiamento diventa assurdo se lo si analizza. L’amato pranzo di Natale nel Regno Unito consiste in tacchino (Nordamerica), patate (Perù), carote (Afghanistan) e cavoletti di Bruxelles (Belgio). Ma non importa. Gli inglesi allora semplicemente non volevano avere a che fare con l’estraneità. Tra tutti gli ingredienti «estranei», il nemico nazionale sembrava essere l’aglio. […]
La Gran Bretagna [di oggi] è diventata un luogo ideale per mangiare. Londra offre di tutto – un döner kebab turco economico ma eccellente, mangiato all’una di notte da un furgone per strada; cene kaiseki giapponesi dal costo spropositato; qualsiasi cosa. I sapori spaziano dai vivaci livelli coreani, inequivocabili, a quelli polacchi, sobri ma calorosi. Si può scegliere tra la complessità dei piatti peruviani – con radici iberiche, asiatiche e inca – e la semplice succulenza della bistecca argentina. […]
Dagli anni ottanta, l’economia è diventata come la scena alimentare britannica prima degli anni novanta. Una tradizione – l’economia neoclassica – è diventata l’unica voce del menu. Come tutti gli altri indirizzi, ha i suoi punti di forza, ma ha anche seri limiti. […] Alcuni lettori potrebbero legittimamente chiedersi: perché dovrebbe importarmi se un gruppo di accademici ha acquisito una mentalità ristretta e si dedica alla monocultura intellettuale?
La mia risposta potrebbe cominciare sottolineando che valutare l’economia non è come, per esempio, valutare lo studio della lingua norrena o l’identificare pianeti simili alla Terra a centinaia di anni luce di distanza. L’economia ha un impatto diretto e massiccio sulle nostre vite.
Sappiamo tutti che le teorie economiche influenzano le politiche governative in materia di tasse, spesa sociale, tassi d’interesse e regolamenti del mercato del lavoro, che a loro volta influiscono sulle nostre condizioni economiche individuali, influenzando le condizioni di lavoro, i salari e gli oneri di rimborso delle nostre spese, dei nostri mutui o prestiti studenteschi.
Ma le teorie economiche modellano anche le prospettive collettive a lungo termine di un’economia, influenzando le politiche che ne determinano la capacità di impegnarsi in industrie ad alta produttività, nell’innovazione e nello sviluppo sostenibile dal punto di vista ambientale. Ma al di là di questo: l’economia non si limita a influenzare le variabili economiche, sia personali sia collettive. Cambia la nostra identità.
Da “Economia commestibile” di Ha-Joon Chang, Il Saggiatore, 280 pagine, 23 euro.