Voi lo sapete – voi che siete abitudinari di questa paginetta, intendo. Voi lo sapete: io non do notizie. Mi fanno schifo, mi annoiano, trovo ciò che serve per procurarsele – fare domande – volgare e poco interessante. Però.
No, prima del però un’altra premessa: l’Italia dovrebbe occuparsi d’altro – del non imprevedibilissimo risultato elettorale, delle non imprevedibilissime dichiarazioni di Berlusconi su Zelensky – e invece, se prendiamo come campione statistico il mio telefono, si occupa solo del matrimonio Ferragni. Più del solito, intendo.
Da quando sono uscite le immagini del marito che sale sul palco dopo essersi lasciato strusciare da un cantante, e della moglie apparentemente non serena. Da quando poi i due hanno smesso di mettere in scena su Instagram la coppia: lui quasi silente sul loro mezzo d’elezione, lei solo in foto coi bambini o con amici.
Da quando una persona che ha lavorato al festival ha fatto un lungo post, ripreso da giornali smaniosi di agganciarsi ai clic ferragnici, dicendo io c’ero, io so cosa si sono davvero detti durante la pubblicità, non chiedetemi il video perché l’ho cancellato subito dal telefono (scaldamutandismo senza limitismo).
Da quando, soprattutto, io ricevo messaggi deliranti in cui si interpretano gli sfondi: questa in cui si è fotografata con le amiche è una stanza d’albergo, Chiara non ha dormito a casa. Non potevo lasciare che fiorissero le leggende metropolitane. Mi è toccato fare domande.
Per capire il contesto della forse crisi in casa Ferragni bisogna immaginarsi Chiara Ferragni che arriva a Sanremo. L’organizzatore del Super Bowl racconta che, quando lo chiamò lo staff di Springsteen, dopo anni d’inviti rifiutati, per dire «L’anno prossimo viene», lui poi si prese mezza giornata di vacanza per la soddisfazione. Forse l’ha fatto anche Amadeus, quando al quarto invito la Ferragni ha infine detto sì. Ma non aveva mai avuto la Ferragni in casa, lui e soprattutto i suoi.
Per capire l’impatto della Ferragni bisogna sapere cos’è una produzione sanremese. Basta un solo aggettivo: romana. Prendi un gruppo di romani che devono mettere insieme cinque ore di televisione al giorno per cinque giorni, e fai calare tra di loro una reginetta del perfezionismo.
Che, in previsione della prima serata e di quel monologo provato sette volte solo sul palco e chissà quante a casa, manda qualcuno a contare quanti passi ci siano tra il suo camerino e il palco, acciocché non esistano sorprese, neanche quella di dire «ma pensavo il sipario fosse più vicino». Contati i passi, si contano le bottigliette d’acqua: dove vanno posizionate, e quante devono essere, dimodoché, in ogni istante in cui alla Ferragni dovesse venir sete, ella non debba mai aspettare.
Essendo i romani quelli del racconto di Flaiano, Chiara è una marziana. Essendo lei una abituata a lavorare in un certo modo (tra i post senza marito di questi giorni, quello in cui ringraziava il suo coach – insegnante sarebbe parsa una parola provinciale – di presenza sul palco), i romani che vedono contare i passi che dovrà fare pensano una sola cosa: tu vuo’ fa’ l’americana.
In questo tentativo di controllo maniacale di una situazione perlopiù incontrollabile qual è una diretta televisiva lunga come Heimat, ci sono alcuni elementi imprevisti che ci sono tutti gli anni, in questa repubblica fondata sulle scemenze: la politica deve agganciarsi alla visibilità del festival. In questo caso, quello dell’edizione 2023, c’è un’aggravante.
L’aggravante si chiama Gianmarco Mazzi: attualmente sottosegretario alla cultura, fino a tre quarti d’ora fa nel gruppo di lavoro di questo Sanremo qui, quello di Lucio Presta, quello di Amadeus. Quando Mazzi dichiara ai giornali «noi abbiamo dei valori in cui anch’io credo, valori tradizionali molto importanti», quando dice che una volta a provocare c’erano Carmelo Bene e Pasolini e ora «c’è un marketing delle provocazioni, non è che sono storie artistiche così importanti», quando butta lì che cambieranno i vertici Rai perché la nuova maggioranza politica «può decidere di esprimere dei propri dirigenti», quando Mazzi si attacca alla foto strappata di Bignami, non è uno che è impazzito e non si ricorda che nei programmi (nei Sanremo, pure) di quel gruppo dirigente e di quella direzione artistica lì ci lavorava pure lui: è uno cui il partito di riferimento ha detto «com’è possibile che non sapessi di Mattarella, ti sei fatto coglionare dai tuoi sodali».
L’aggravante si chiama Federico Lucia: il problema è che a fornire ganci a Mazzi e al governo per chiedere teste è stato il marito di Chiara Ferragni, la quale aveva contato i passi e le bottigliette e s’illudeva di riuscire a controllare anche l’abitudine del marito di piantare casini. Lo strusciamento di Rosa Chemical arriva dopo la foto stracciata del viceministro, dopo il «Giorgia: legalizzala!» durante il duetto con gli Articolo 31, dopo che il marito (che dalla dinamica parrebbe più: il figlio capriccioso) aveva combinato un casino al giorno.
Arrivi a Sanremo preparatissima, pretendi di provare sette volte il monologo (forse non era mai successo che in una produzione televisiva italiana qualcuno provasse sette volte qualcosa: non siamo mica gli americani, che loro possono sparare agli indiani), credi di avere tutto sotto controllo, e poi tuo marito ti manda a meretrici l’attenzione del pubblico e la calibratura degli interventi. Ti tocca dire che hai un bonus limone anche tu, e non l’avevi preparata, e tu sei calvinisticamente contraria all’improvvisazione.
Quindi il marito sale sul palco, precettato dalla moglie. È la foto che avete visto, ma alla foto mancava l’audio. Chiara Ferragni non dice parolacce, quindi immaginate il tono: nel tono con cui io e voi tireremmo giù tutti i santi, lei dice al teoricamente coniuge e praticamente primogenito «Me ne hai combinata un’altra».
Lui, a quel punto, risponde col tono di tutti i bambini che hanno rotto il vetro col pallone o hanno bigiato la scuola: «Amore, non è colpa mia, è lui che mi ha limonato». (Poiché vivo in mezzo alla demenza postmoderna, quando mi riferiscono questa frase penso solo: ma Rosa Chemical non è fluido? «Lui» non è misgendering?).
Avanzamento rapido di qualche ora, il festival finisce. Chiara è in camerino. Il marito va dietro le quinte. Davanti alla porta c’è l’abituale guardia del corpo, che guarda il tapino limonato e rinnegato con la pietà con cui il personale di servizio guarda le vite dei ricchi, e gli dice: «Ha detto che non puoi entrare».
Il resto, come tutti, non lo so. Non so se davvero siano ancora litigati o se abbiano solo colto questo spunto per girare puntate della seconda stagione del loro documentario Prime (il cui autore era a Sanremo: immagino, per logica, non a comprare petunie; spero, per voluttà di spettatrice, a insufflare un litigio che è perfetto per una serie in cui i due vanno in terapia di coppia).
So che l’Italia dovrebbe occuparsi d’altro, o forse no. In fondo, anche quando eravamo una nazione meno disgraziata mia nonna leggeva dei bisticci tra la principessa Carolina e Junot. Oggi questi qua abbiamo, in quanto a case regnanti e star system, e con questi qua ci balocchiamo.