L’annuncio della chiusura del ristorante Noma che nel 2024 verrà trasformato in laboratorio non è di per sé una grande sorpresa. O, più precisamente, non è qui che sta il punto. Più che l’effetto annuncio, non dimentichiamoci che manca ancora un anno intero per andare in questo ristorante di Copenhagen.
«Non è più possibile, umanamente o finanziariamente, gestire un ristorante gastronomico di questo livello» ha detto lo chef. Innanzitutto, ricorda che, come in Spagna e in altri paesi europei, i tirocinanti e gli apprendisti in Danimarca non sono necessariamente pagati in molte aziende. Come altri ristoranti, il Noma ha saputo approfittare del sistema e beneficiare di una forza lavoro tanto orgogliosa di lavorare per questo grande chef quanto impoverita da un sistema discutibile.
Quanti altri chef si trovano nella stessa situazione, indecisi se cambiare l’offerta, aspettare o chiudere? Tra le righe di queste domande si pone inevitabilmente la questione della posizione di una guida come la Michelin, che ha ancora il potere di influenzare il destino di certi locali. Nel dibattito tra professionisti emergono due posizioni: chi ritiene che la “rossa” non debba pensare alla politica e limitarsi a giudicare il piatto e nient’altro che quello, e gli altri che, al contrario, chiedono anche dalla guida sempre più tolleranza nei confronti della situazione emergenziale contemporanea. Come sempre, dalla guida non arriverà nessun commento su questo argomento: come sappiamo la rossa non rilascia molte dichiarazioni e anzi si guarda bene dall’entrare nel dibattito. In fondo, è il suo ruolo quello di recensire ristoranti, non quello di essere clemente perché non si trovano camerieri. Anche se, in un altro momento storico, quello più duro del Covid, persino l’inappuntabile Guardian ha bloccato le recensioni negative ai locali. Jay Rayner, critico gastronomico del magazine britannico scrisse all’epoca: «Ho deciso che, per il prossimo futuro, non ci saranno recensioni negative. Se mi imbatto in un posto che non amo, semplicemente lo segnerò nel mio taccuino per sperimentare e passare ad un posto migliore. È un riconoscimento per il settore della ristorazione, che è in ginocchio. Nel migliore dei casi, anche le aziende di maggior successo hanno bisogno di un flusso costante di denaro per poter continuare a pagare l’affitto, i fornitori e il personale. Il blocco ha distrutto tutte le riserve di liquidità e il distanziamento sociale ha assorbito gran parte del reddito, senza che ci sia stato un calo delle spese generali».
Più di qualcuno il dubbio se l’era fatto venire, e aveva deciso che anche le recensioni dovevano essere filtrate dalla situazione contingente. Come abbiamo scritto a Marzo 2021, anche Tejal Rao, critico di ristoranti del New York Times aveva proposto una tregua: «I critici dovrebbero considerare tutte le questioni cruciali del momento contingente, come il lavoro, le disuguaglianze, l’esclusione – tutte le dinamiche che non vediamo e che però sono in grado di modificare la nostra società, i nostri ristoranti e tutti gli spazi in cui ci muoviamo. Questa visione deve essere parte del nostro lavoro, anche se non la raccontiamo in ogni singola storia. Ma è questo il principio che deve guidare la nostra professione. Gran parte di ciò che è stato messo in luce lo scorso anno non era nuovo, esiste da molto tempo e non sembra risolversi: l’ingiustizia razziale, i costi fisici per i lavoratori, le disuguaglianze che corrono lungo tutta la filiera della ristorazione, i costi ambientali. Il nostro sistema alimentare è così distrutto e così disfunzionale e le persone ne soffrono. E penso che la critica possa svolgere molti ruoli, incluso continuare a far luce su questi temi».
Essere più clementi, da clienti e da recensori, non su tutto e non sempre, ma tenendo conto di quello che sta succedendo, è una ipotesi non troppo peregrina. E forse anche la critica più feroce dovrebbe tenere conto del momento e aiutare i ristoratori a superare una situazione che, almeno in parte, non dipende solo da loro. E addirittura farsi portavoce del problema, amplificandolo e provando a trovare soluzioni comuni per un tema che non può che essere all’ordine del giorno per chiunque si occupi di questo settore. Perché se è vero che sono lo chef e il suo team a stabilire la rotta e le ambizioni culinarie ed economiche del loro progetto, sono anche in parte ostaggi di un sistema che va al di là di loro. Bisognerebbe poi individuare i colpevoli. Lo Stato? I media? Le guide? I clienti? O un concorso di colpe di tutti? E se così fosse, non possiamo tentare di trovare una soluzione comune, tutti insieme? Noi proveremo a fare la nostra parte durante la prima Tavola Spigolosa post Covid, in programma il 15 Febbraio dalle 18:30 al Centro Brera di Milano. Ci potete seguire in streaming, per capire a che punto siamo e provare a delineare una strada per il futuro.
Fornelli in fuga
Dopo il Festival di Gastronomika, un altro momento per approfondire la nuova e giovane cucina italiana, questa volta partendo dal tema più attuale, quello legato al lavoro nell’universo dell’enogastronomia. La cucina di chi si sta affacciando al settore in questi anni complessi rivela un’idea precisa e definita, che ribalta i canoni fin qui considerati normali, anche in termini di propensione al sacrificio, di ore lavorate, di spazio per la creatività, per lo studio e per il riposo. Il mondo del lavoro nel settore è sempre più in crisi: come ci siamo trovati in questa situazione e come ne usciremo?
Ne con parleremo con
Francesco Seghezzi, Presidente Fondazione Adapt
Matteo Aloe, Co-founder e Head Chef di Berberé
Giacomo Perletti, Founder di Contrada Bricconi
Valeria Raimondi, Direttore Editoriale Fine Dining Lovers e S.Pellegrino Young Chef Academy