Sommersi e dannatiNella Russia di Putin si è corroso il confine tra vittime e carnefici

“Russo no” di Michail Ševelëv (e/o) è un viaggio nel giornalismo disallineato che non esiste più e nella composita natura dei popoli russofoni, la cui gestione semplicistica del Cremlino – dice l’autore a Linkiesta – segna la fragilità del regime. La guerra all’Ucraina può farlo crollare

manifestazione a Mosca

Il pezzo migliore di Pavel Vladimirovič è quello che non è mai uscito. Il protagonista di “Russo no”, romanzo di Michail Ševelëv appena pubblicato da e/o dopo aver vinto il Premio Isaac Babel’ ucraino nel 2021, scrive il suo atto d’accusa alla società a cui lui stesso appartiene nel cuore di una notte. La mattina dopo deve trattare la liberazione di un gruppo di ostaggi, sequestrati nella Chiesa dell’Epifania. L’attentatore è una conoscenza sbiadita del suo passato: Vadik, salvato dall’inferno ceceno più per boria che per convinzione umanitaria, poi abbandonato al suo destino.

«Ce lo meritiamo. Non ce la saremo cercata, ma ci meritiamo tutto. Tutto quanto», è l’attacco dell’ultimo articolo di Pavel. Un testamento spirituale fuori tempo massimo, come il discorso allo specchio della “Venticinquesima ora”, tombato nel suo hard disk. Il racconto mescola al presente mediocre i prodromi che l’hanno permesso. La normalizzazione della tragedia fino al suo realizzarsi. Diventa una presa di coscienza di cose che i suoi personaggi (e non solo loro) hanno sempre saputo. Non ci sono sommersi o salvati, solo diversi gradi di colpevolezza.

Il libro si apre con un telegiornale e, in generale, restituisce una retrospettiva autentica del giornalismo russo. «Ho passato più di dieci anni da corrispondente di guerra – spiega Ševelëv a Linkiesta – e come curatore del dipartimento sui conflitti etnici al settimanale Moscow News negli anni Novanta e nei primi anni Duemila. Ossezia del Sud, Cecenia, Abkhazia, Karabakh e altri posti. L’esperienza è stata indimenticabile».

Quel tipo di redazioni, e di giornalisti, non esistono più oggi nella Federazione. «Sono state sradicate deliberatamente: è stata una delle prime cose che le nuove – nuove all’epoca – autorità russe hanno fatto. È stato intelligente dal loro punto di vista: la società, senza un riscontro in cui specchiarsi, è sempre più facile da conquistare».

Uno degli aspetti che colpisce, nel testo, è il potere mistico dell’informazione televisiva. In una pagina, un leader ceceno ripete il discorso davanti alle telecamere perché l’audio del primo era stato rovinato dagli spari. Guardare il telegiornale è un rituale. Si capisce così il rapporto tra l’informazione, che ormai è propaganda, e il pubblico.

«In realtà, è stata l’abitudine congenita – neppure russa, ma sovietica – di consumare e credere ai tg ad aver permesso ciò che succedeva all’epoca e accade oggi. Non potrei nemmeno immaginare quant’è debole la società russa di fronte alla propaganda. Parlando di responsabilità collettive, questa sottovalutazione è la mia colpa personale e professionale».

A un certo punto, un personaggio sentenzia: «I russi? Sono come tutti gli altri, solo che a furia di bastonate puoi farci quello che vuoi». La mobilitazione di massa e l’immenso numero di caduti in Ucraina lo dimostrano? «Andrebbe notato che il personaggio in questione è Shamil Basaev, il leader del terrorismo ceceno. Il significato esatto di ciò che ha detto (sia nel libro sia nella realtà) è: sì, come chiunque altro, ma sono stati bastonati troppo spesso nella Storia e ora vengono governati con la paura. Ero in disaccordo all’epoca, oggi la penso come lui».

Mosca, capitale tentacolare, è paragonata alla palude di Grimpen, l’ambientazione del “Mastino dei Baskerville” dello Sherlock Holmes di Arthur Conan Doyle. Un luogo di intossicazione e inganno. Si può estendere, forse, alla Russia intera. Fino a che punto i cittadini riconoscono di essere ingannati, e fino a che punto lo desiderano? «È una domanda essenziale e dolorosa. È difficile giudicare centoquaranta milioni di persone. Vivo lontano da Mosca. Da ciò che vedo e sento, per la maggior parte della gente ignorare la realtà attuale – non vedere, non sentire, non giudicare – è l’unico modo per restare sani di mente e salvare almeno i rimasugli dell’autostima».

Tra le pagine, il confine tra vittime e carnefici si fa sempre più labile. È questa la cifra della società nel ventennio putiniano? «Lo è. Ora nessuno sa più chi sono i carnefici e chi sono le vittime. Aiuta parecchio il regime a promuovere lo slogan: “Tutto il mondo è contro di noi, i russi”».

Uno dei valori aggiunti del testo è testimoniare quanto sia eterogenea la popolazione russofona. Sono soprattutto le minoranze etniche a sopportare lo sforzo bellico, che le sacrifica come carne da cannone. «Può influire sulla longevità del regime, perché sono il suo ventre molle. La natura della popolazione russofona è troppo composita e i metodi di gestione del Cremlino sono troppo semplici, per non dire semplicistici. Di conseguenza, il costrutto sociale e politico russo risulta molto rigido e quindi molto fragile».

Spesso, sui media occidentali, speculiamo sulla caduta di Putin, o sul presunto malcontento in seno alle “élite”. Fatichiamo, però, ad avere un’idea di quale sia davvero la situazione lì. La guerra può cambiare le cose? Una transizione democratica sarà mai possibile o è più probabile una successione all’interno della classe dominante?

«L’Ucraina funzionerà sicuramente da catalizzatore. Quanto agli scenari, nessuno dovrebbe essere escluso. Molto dipenderà da come si comporteranno le nazioni che oggi sostengono l’Ucraina. Stabilire l’obiettivo di aiutare la Russia in una transizione democratica? O utilizzeranno l’Ucraina meramente come cordone sanitario, lasciando i russi alle prese con i loro casini? Spianerebbero la strada al caos in una nazione ricca di missili balistici e di centrali nucleari molto più grandi di Chernobyl. La scelta va ancora presa».

Copertina libro “Russo no”

“Russo no” di Michail Ševelëv è da poco uscito per e/o, 144 pagine, 17 euro.

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