I tiranni si possono combattere, nel 2022 ce lo siamo ricordato. Leadership mitizzate, mai abituate a perdere, hanno sbattuto contro una realtà fallimentare. Russia, Iran, Cina, Bielorussia, Ungheria, le loro succursali a Mar-a-Lago e nel mondo. A questi «capi carismatici» si è ritorta contro l’auto-narrazione da vincenti. Sta a vedere che eravamo noi ad alimentarla quest’aura di impunità. I nostri media sono ossequiosi nel trascrivere repliche ufficiali di poteri spregevoli, di cui «vanno capite le ragioni», e sedotti dal fascino dell’«uomo forte», i cui «trionfi» si sono sgretolati non appena abbiamo smesso di raccontarli come tali, non appena l’Occidente si è ricompattato dopo anni di arrendevolezza.
Vladimir Putin non ha un buon rapporto con gli insuccessi. All’alba del suo ventennio al potere, nell’agosto del 2000, preferì lasciar morire affogato l’equipaggio del sottomarino nucleare “Kursk” (centosette persone) che accettare l’aiuto straniero, offerto da Regno Unito e Norvegia. Sta perdendo il conflitto in Ucraina dal 24 febbraio, ma nessuno deve averglielo detto. Anche perché la morìa di oligarchi – l’ultimo è Pavel Antov, “caduto” due giorni fa dalla finestra di un albergo in India – potrebbe indurre alla prudenza il cerchio magico del Cremlino.
Un po’ come quando si tace una notizia sgradevole per risparmiarla a un parente anziano, gliela si dà annacquata o in ritardo. Solo che il «nonno» in questione siede su seimila testate nucleari e andrebbe processato per crimini di guerra. Nel 2022 ai piani alti della cleptocrazia ci sono stati decessi a dozzine, parecchi spacciati per suicidi. Esprimere critiche, anche felpate o involontarie, al governo di Mosca accorcia significativamente l’aspettativa di vita nella Federazione. Da quelle parti, «defenestrare» non è un eufemismo per la fine della carriera politica.
L’assassinio è un «lavoro sporco» (mokroye delo in russo). Può servire a togliere di mezzo un individuo scomodo, rappresaglia per un tradimento vero o fasullo. Spesso rappresenta un messaggio. A volte i mandanti non vogliono nemmeno depistarci: se avvelenano, lasciano residui che suggeriscano, «come un biglietto da visita», un omicidio. Non abbastanza, però, perché sia dimostrabile la responsabilità dei Servizi russi. L’informazione è connivente quando si presta a questi giochi, facendosi manipolare perché trasmetta un avvertimento.
Abbiamo avvalorato la fama di sicari implacabili, da romanzo spionistico, anche di fronte a errori marchiani, come quando Alexei Navalny ha smascherato con una telefonata i suoi goffi attentatori. L’immaginario collettivo è rimasto intrappolato nella narrativa, l’allucinazione di Putin che cavalca orsi a torso nudo, anche quando la realtà confutava la propaganda di Stato. Qualcosa di simile è avvenuto con la fantasmagorica potenza militare russa. Attesa per settimane, mentre gli ucraini sfatavano anche quel mito meglio di qualsiasi debunking, con sgomento degli opinionisti che avevano magnificato «il secondo esercito del mondo».
La corruzione metastatica aveva drenato miliardi di rubli. Fissavamo un gigantismo di facciata, senza accorgerci che si trattava di villaggi Potëmkin. Lo stesso stratagemma – una finzione posticcia – veniva adottato per nascondere le caserme in rovina durante le visite ufficiali. La peggiore politica, che aveva inviato osservatori e delegazioni in Donbas, si sgola perché l’Ue addolcisca le sanzioni «che fanno più male a noi». È surreale credere a un inganno di cui persino una parte dell’élite russa ha iniziato ad accorgersi. Senza neppure la scusante di essere tenuti in ostaggio.
Il 2022 è l’anno in cui abbiamo capito che per contrastare i tiranni dobbiamo smettere di mitizzarli, in cui la fragilità dei regimi autocratici ha messo a nudo la loro inadeguatezza come «modelli» alternativi. Il modello, semmai è Kyjiv. Quella «illiberale» non solo non è democrazia, ma non funziona nemmeno meglio. È vero il contrario. Davanti allo sprofondo di Putin, all’incapacità cinese di contenere i contagi, è brillato il controesempio degli Stati liberali, con tutta la loro farraginosità. È bastato che l’Occidente si unisse perché evaporassero decenni di fake news.
Mentre cerca di smerciare sottoprezzo gas e petrolio all’India, Putin non è mai stato così isolato. I suoi alleati non se la passano meglio. Abbraccia Alexander Lukashenko, che resta in carica solo grazie alla repressione sponsorizzata dal Cremlino, però non riesce a convincerlo ad aprire un secondo fronte. Ha mobilitato trecentomila disgraziati, non ha più armi né equipaggiamento, eppure li scaraventerà in tritacarne come quello di Bakhmut, dove cresce l’influenza della Wagner in quell’ultimo irrigidimento totalitario chiamato rascismo.
Alla vigilia dell’invasione, il dittatore ha incassato una cooperazione «senza limiti» con Xi Jinping e pare avergli portato sfiga. Dieci mesi dopo, a Pechino è esplosa in casa una bomba pandemica – sembra un replay del 2020 solo che l’Occidente ha i vaccini – dopo quella del dissenso in autunno. La retorica bellica ha smesso di funzionare quando s’è incrinato il patto con la popolazione. In un bilaterale virtuale ieri i due si sono ripromessi «collaborazione strategica» e, magari, di vedersi dal vivo in primavera. Ottimisti.
Putin non può più contare sulla sua quinta colonna americana. Anche se è ancora molto influente tra i repubblicani, dove accusa la concorrenza del più giovane Ron De Santis, Donald Trump è un ex presidente azzoppato. Era convinto di stravincere le Midterm: da re Mida al contrario, ha fatto perdere molti dei candidati che ha benedetto. L’annuncio di correre per la Casa Bianca serve anche e soprattutto a oscurare i guai giudiziari di un golpista ed evasore. L’ala alt-right del Gop, però, può complicare i nuovi aiuti da quarantacinque miliardi di dollari.
Al macellaio russo resta l’asse con Teheran. Arrivano dall’Iran (e dalla Corea del Nord) i droni kamikaze e le bombe che continuano a piovere sull’Ucraina. La presa degli ayatollah però scricchiola: una nuova generazione si ribella all’oscurantismo di un Medioevo senza fine e rigetta il velo come strumento di oppressione. È l’alba di una rivoluzione? Le rivolte «sembrano sempre impossibili il giorno prima, e sempre inevitabili il giorno dopo». Le donne iraniane ci ricordano che le teocrazie possono crollare. Non dobbiamo fare l’errore di crederle eterne: a Mosca, a Pechino, a Minsk.
Il Cremlino ragiona per «sfere d’influenza». Quella di Mosca è stata amputata con l’aggressione insensata a Kyjiv. Georgia e Moldavia hanno affiancato l’Ucraina nella richiesta di entrare nell’Unione europea, Svezia e Finlandia hanno riscritto una storica neutralità per ripararsi sotto l’ombrello della Nato. Il brand di Putin è diventato tossico, ha perso ogni attrattiva (salvo in certi salotti televisivi italiani). I gruppi politici che avevano intrattenuto relazioni con Russia Unita si sono affrettati a cercare di cancellare quel passato.
Soffiare sul fuoco dei Balcani, sulle tensioni in Kosovo, dà le dimensioni della disperazione di Mosca. Dopo il presidente serbo Aleksandar Vučić, un altro fiancheggiatore è il primo ministro ungherese Viktor Orbán. Budapest per mesi ha fatto ostruzionismo sulle sanzioni e ha ottenuto esenzioni che minavano l’unità europea. Oggi vieta il transito di armi sul suo territorio e usa il dossier ucraino per ricattare i Ventisette. Nulla di nuovo. Alla fine capitola sempre. Prima o poi dovrà pagare le conseguenze di questa ambiguità.
È un autocrate pure l’autoproclamatosi pacificatore, Recep Tayyip Erdoğan. Il presidente turco ha officiato i negoziati falliti, si è intestato la riapertura dei corridoi del grano sul mar Nero. «È un dittatore con cui dobbiamo fare i conti», insuperata formula draghiana. Nel dubbio l’Italia gli vende munizioni navali. Il sultano è instabile come la lira turca. Agita la repressione del «terrorismo» e ordina sentenze politiche perché perde consensi. A giugno 2023 si vota, chissà se entro allora avrà sollevato il veto sull’ingresso di Stoccolma ed Helsinki nell’Alleanza atlantica.
«La cosa scioccante è che i crimini di guerra, i sistematici eccidi di massa, le deportazioni e le torture in Ucraina sono una ripetizione delle atrocità del Cremlino in passato – ha scritto la premier estone Kaja Kallas (una delle nostre donne europee dell’anno) –. Da febbraio molti si sono chiesti “perché?” Perché la Russia sta conducendo una guerra genocida contro l’Ucraina? La mia risposta è sempre: guardate la Storia. L’Urss è scomparsa, l’imperialismo no. L’uso della forza è continuato contro la Moldavia, poi la Georgia, la Crimea e il Donbas. Troppi fuori dalla Russia hanno sottovalutato questi eventi. L’aggressione su larga scala dell’Ucraina non avrebbe dovuto essere una sorpresa».
Il 2022 è l’anno in cui il mondo libero smette di farsi prendere di sorpresa. Ci ha messo sotto gli occhi la fallibilità dei tiranni, a cui possiamo attivamente contribuire. Abbiamo appreso che la loro statura temibile era spesso un (nostro) artificio prospettico. In retrospettiva, sono evidenti le falle nei loro trionfi. Avremmo potuto evitarli, ma non le abbiamo viste, come non abbiamo creduto a chi ce le indicava. Sotto la propaganda niente. Il 2023 può essere l’anno in cui cadrà qualcuno di loro: ora sappiamo che dipende dalle democrazie occidentali. Da noi.