Come in una maledizione shakespeariana, il primo ministro inglese Rishi Sunak è perseguitato dal fantasma dei predecessori. Da declinare al femminile, in questo caso, perché per una volta non c’entra il solito Boris Johnson alla ricerca del potere perduto. Liz Truss ha rotto il silenzio con un memoriale sul Telegraph. Il primo atto del ritorno sulla scena passa da un’intervista allo Spectator e coincide con quello alla politica attiva. In tempi di rigore economico, l’avventurismo dei quarantanove giorni di paura e delirio a Downing Street e soprattutto la retorica anti-establishment trovano ancora ascoltatori nel partito che l’ha scaricata. Dopo la tregua, di nuovo faide, come se i Tories non stessero affondando nei sondaggi.
Ogni virgolettato di Truss viene letto come una critica implicita all’esecutivo in carica, quello che dovrebbe rebrandizzare la destra, ma ha tentennato prima di licenziare il segretario Nadhim Zahawi (aveva patteggiato con il fisco da Cancelliere dello Scacchiere, l’equivalente britannico del ministro delle Finanze). La retrospettiva sul Telegraph (potete leggerla sul sito dell’ex premier che ha aggirato il paywall come i politici nostrani) si dilunga su due aspetti: «il troppo da fare in troppo poco tempo», cioè l’enormità della sfida, e l’ostruzionismo sia della classe dirigente di Whitehall sia dei conservatori. Un isolamento vissuto come tradimento.
La resa dei conti occupa quattromila parole. Sono tremila settencento in più del discorso di Gettysburg di Abraham Lincoln – ha fatto notare su Twitter il giornalista Otto English – 3.350 in più del Bill of Rights su cui si fonda la democrazia parlamentare modello Westminster e quattrocentocinquanta in più della Magna Carta. Le abbiamo contate: 3.921 in tutto, oppure 23.314 caratteri spazi inclusi. In quel profluvio di paragrafi, l’ex prima ministra ricorda la sorpresa per la caduta di Johnson, avvenuta mentre lei era al G20, e una candidatura alla successione decisa per senso di responsabilità, senza preparazione. S’è visto.
Quando rivendica l’effimera vittoria, scorda di dire che è stata la più fragile (57,4 a 42,6 per cento) da quando gli iscritti al partito possono votare il loro leader. Difende il «coraggio» del minibudget, anche se la manovra economica rischiava di rendere il Regno Unito insolvente sui mercati. Poi contesta l’Office for Budget Responsibility perché ha denunciato pubblicamente quel pericolo. Truss se la prende con gli apparati del Tesoro, dove «il pessimismo e lo scetticismo sono tristemente endemici» e «la Brexit era vista come un esercizio di riduzione danni invece di un’opportunità unica». Peccato lo sia.
Proprio la negazione della realtà le era stata letale, in termini politici, ma Truss sembra ferma nella stessa fase. Se chi ti circonda non la pensa come te, insomma, il problema è suo. Racconta come se fossero contromosse lucide e normali la clamorosa retromarcia sull’abolizione del «45p tax rate», cioè dell’aliquota al quarantacinque per cento sui redditi oltre le centocinquantamila sterline all’anno, e il siluramento del ministro Kwasi Kwarteng, che ha fatto da parafulmine all’interventismo statale creativo e temerario, allungando di una settimana la vita al governo.
«Non sostengo di non avere colpe in ciò che è successo – scrive infine l’ex prima ministra –, ma essenzialmente non mi è stata data una possibilità realistica di realizzare le mie politiche da parte di un establishment economico molto potente, insieme alla mancanza di sostegno politico. Entrando a Downing Street, ritenevo che il mio mandato sarebbe stato rispettato e accettato. Come mi sbagliavo. Anche se avevo previsto resistenze al mio programma, ho sottovalutato la loro portata».
Tutta colpa della sinistra. Il fatto che i conservatori governino da tredici anni ininterrotti non scalfisce la convinzione d’essere stata sabotata di una statista mancata. Incolpare gli altri (l’Unione europea) dei propri insuccessi, in effetti, ricalca la strategia comunicativa dei Tories sulla Brexit. Il trionfo del 2016, e poi quello elettorale del 2019, hanno svuotato un partito associato dal pubblico a una promessa fallita. Se la convergenza su Sunak, di cui sono da poco trascorsi i primi cento giorni, ha sancito una tregua alla guerra tra bande; la ricomparsa di Truss è un indizio del vecchio correntismo.
Chiedere di abbassare le tasse, ai livelli più alti da mezzo secolo, intercetta un tema caro sia alla base sia tra i parlamentari, in particolare quelli eletti negli ex fortini laburisti. Il mese scorso è nato un Conservative Growth Group, ennesimo centro di potere nella frammentata galassia liberista, che ha arruolato già cinquanta deputati. Sunak non ha commentato l’articolo di Truss, ma nel suo entourage ritengono che «più sentiamo parlare di lei, più difficile diventa vincere le elezioni». Quelle locali si avvicinano insieme alla primavera. Far circolare di nuovo il suo nome, secondo gli spin doctor di Downing Street, ricorda ai cittadini lo sprofondo di un esecutivo durato meno di un ciuffo di lattuga.
A metà febbraio Truss andrà in Giappone. Lì è attesa una sua filippica sulla minaccia cinese. Se l’esistenza di Johnson, cittadino onorario di Kyjiv, incalza Sunak a fare di più per l’Ucraina, quella dell’ex ministra degli Esteri, considerata un «falco» da Pechino, lo spinge a una politica estera più assertiva con il gigante asiatico. Nel frattempo, l’ala destra dei conservatori vorrebbe che Londra uscisse dalla Convenzione europea sui diritti umani per poter riesumare il piano di deportare in Ruanda i migranti, bocciato proprio perché violava il trattato. Gli unici due Paesi del continente a non farne parte sono Russia e Bielorussia. Per ora è propaganda identitaria.
Il tentativo di Truss di auto-riabilitarsi è sintomo di una dissonanza cognitiva comune alla sua categoria. Priva di un mandato elettorale, pontifica su misure «popolari» quando a sceglierla sono stati ottantuno mila membri dei Tories (altri sessantuno mila le avevano preferito il successore). Questa incapacità di scusarsi, di intestarsi le colpe riflette quella della politica inglese dopo l’uragano della Brexit. Certo, il vitalizio da 115 mila sterline come ex premier è risibile di fronte al patrimonio da 730 milioni di Sunak. Se pensiamo che è stato maturato in soli quarantanove giorni di servizio, però, diventa primatista tra le “baby pensioni” del mondo. Non era abbastanza, ci voleva una rentrée.