Dopo una lite condominiale, migliorare i rapporti di vicinato conviene a tutti. A patto di smaltire anni di incomprensioni reciproche. Le relazioni tra Regno Unito e Unione europea hanno superato la fase dell’ostilità a priori. Siamo nella successiva: la normalizzazione dopo il “fattaccio”. Ci sono segnali di apertura, caldeggiata in ambienti diplomatici. È cambiato il tono dei comunicati dei bilaterali, ma restano due stalli – i soliti – sulla cui soluzione andrà misurata la pace tra le sponde della Manica. La guerra in Ucraina, dove le democrazie sono sullo stesso fronte, ha dimostrato che la collaborazione è non solo possibile, ma necessaria. Downing Street e Bruxelles hanno bisogno di ritrovare quello spirito in Irlanda del Nord e a Gibilterra.
Dopo mesi di silenzio radio, il 2023 è cominciato con l’incontro a Londra tra il commissario europeo Maroš Šefčovič e il ministro degli Esteri inglese James Cleverly, accompagnato dal collega Chris Heaton-Harris, incaricato del governo per i ventisei distretti sull’isola gemella. Nelle dichiarazioni si mettono nero su bianco «nuove basi» per i colloqui. Una terminologia che si avvicina al «fresh start» nei rapporti, una specie di «ricominciamo», auspicato da entrambe le controparti dopo l’ostruzionismo della stagione di Boris Johnson.
La riunione si è conclusa con un primo accordo concreto. L’Ue e la Gran Bretagna adotteranno il data–sharing, nel tentativo di sbloccare gli scambi che hanno risentito dei controlli doganali. I patti di recesso della Brexit, infatti, hanno lasciato l’Irlanda del Nord all’interno del mercato unico europeo, per evitare il risorgere di un confine rigido con la repubblica di Dublino. Dopo una moratoria, scaduta nel gennaio 2021, questo assetto è equivalso a una frontiera commerciale tra la regione e il resto del Paese. Il sistema congiunto vorrebbe ridurre i tempi di import ed export, allungati dalla burocrazia, informatizzando i documenti che viaggiano con le merci.
Le speranze di una riappacificazione nel corso dell’anno sono alimentate da un diverso atteggiamento dell’esecutivo britannico. Era stata l’intransigenza di Londra, corrisposta dalla freddezza di Bruxelles per un primo ministro euroscettico persino dopo aver abbandonato l’Ue come Johnson, a complicare dossier disinnescati solo grazie a proroghe dell’ultimo minuto. Dopo la vittoria alle urne, ottenuta brandendo come feticcio la Brexit, Boris ha continuato a incolpare il continente dei fallimenti inglesi anche a campagna finita. Strideva la falsità delle sue promesse.
Il divorzio del 2016 resta un tratto identitario, ma Rishi Sunak sembra meno dogmatico. Non è solo l’opinione pubblica inglese – sondaggi alla mano – a essersi pentita. Ora anche i sostenitori dei Tories. Un elettore su tre dei conservatori ritiene che la Brexit abbia creato più problemi di quanti ne abbia risolti. Solo il ventidue per cento crede sia stata invece un’opportunità. È un cambio di segno di cui un premier con il disperato bisogno di risalire nei consensi non può non tenere conto. Deve far sua quella massima del cancelliere Bismarck: «Solo uno sciocco impara dai suoi errori, un saggio impara da quelli degli altri». Gli «altri» si chiamano Theresa May, Boris Johnson, Liz Truss.
Il rivale laburista Keir Starmer gli ha offerto «copertura politica» nel corso di un discorso alla Queen University di Belfast. Pure Bruxelles ha battuto un colpo. La commissione europea ha rimandato di tre anni l’entrata in vigore di una nuova normativa sui farmaci veterinari. Dai tempi della «guerra delle salsicce» dell’estate 2021, la sicurezza alimentare e i suoi standard rappresentano uno dei terreni di scontro, nonché un ulteriore possibile motivo di frizione alle spedizioni di generi deperibili. Nel suo viaggio in Irlanda di dicembre, la presidente Ursula von der Leyen sprizzava fiducia: si può «trovare una via», i colloqui con Sunak sono «incoraggianti».
È possibilista il nuovo premier di Dublino, Leo Varadkar. Nel suo primo mandato da taoiseach, tra il 2017 e il 2020, ha contribuito a negoziare quel meccanismo. Oggi dice che è «troppo stringente», andrebbe reso più «flessibile e ragionevole». Le delegazioni, ha aggiunto in seguito, non hanno ancora imboccato il proverbiale «tunnel», il termine con cui ci si riferisce la fase più intensa dei negoziati. Sostiene di comprendere i malumori degli unionisti, che hanno paura di diventare «meno britannici» e fa quasi ammenda: «Abbiamo commesso tutti degli errori nella gestione della Brexit. Non c’era una mappa o un manuale, abbiamo fatto del nostro meglio».
I diretti interessati hanno spento l’entusiasmo. Il capo del Dup, il Partito unionista democratico, Jeffrey Donaldson ha ribattuto che «non siamo affatto vicini a un accordo» sulla revisione del protocollo. Il primo incontro tra il ministro Cleverly e la politica locale è stato disertato dai nazionalisti del Social Democratic and Labour party e di Sinn Féin, i vincitori delle elezioni di maggio che hanno paralizzato il governo nord-irlandese per il rifiuto del Dup di partecipare alla coabitazione al potere prevista dall’Accordo del Venerdì Santo del 1998.
Gibilterra è un caso meno mediatizzato. Il compromesso in extremis del Natale 2020 tra Commissione e Regno Unito non la menzionava neppure, era servito un addendum alcuni giorni dopo per evitare una «Brexit dura» tra l’ex colonia e la Spagna, con cui confina. Dall’ottobre 2021, Madrid e Londra trattano per formalizzare uno status quo che coincide con l’ingresso di quei sei chilometri quadrati nell’area Schengen. Ogni giorno, quindicimila transfrontalieri raggiungono per lavoro la Rocca (com’è soprannominata l’exclave britannica).
È stata protetta la loro libertà di movimento, in entrambe le direzioni, ma un’altra questione da risolvere è a chi spettino i controlli esterni, in particolare quelli dei viaggiatori che atterrano all’aeroporto di Gibilterra. Il governo di Pedro Sánchez insiste perché sia la polizia spagnola a occuparsene; Londra, invece, invoca l’Agenzia europea Frontex. Un piccolo paradosso, vista l’allergia di Downing Street per le vestigia del suo passato comunitario, su tutte la Corte di giustizia dell’Ue. «La Spagna non vuole uno scenario da no deal», ha ribadito il ministro degli Esteri José Manuel Albares.
Sarebbe ironico che si realizzasse lì, e su scala ridotta, il no deal così faticosamente sventato per i rapporti macroscopici con Bruxelles. Al referendum del 2016, il novantasei per cento dei gibilterriani ha votato per restare nell’Ue. A novembre, gli uffici dello Stato hanno condotto un’esercitazione di sei ore per simulare le conseguenze di una rottura completa dei rapporti tra la madrepatria e l’Unione. Lo stallo diplomatico, dopo undici sessioni, è complicato dalle mire di Madrid sul territorio, ceduto ai britannici nel 1713. Trecento anni dopo, Gibilterra è più vincolata di prima alla sua ex capitale.
Di nuovo, queste prime settimane dell’anno potrebbero essere decisive per superare l’immobilismo. Anche perché una riconciliazione sul Mediterraneo potrebbe farsi sentire fino al Mar d’Irlanda. Anche qui andrà gestita l’opposizione interna. Downing Street quella dello European Research Group: il centro di potere che riunisce i deputati eurofobici dei Tories è pronto a gridare all’indebolimento dei legami storici con Gibilterra. Sánchez, in vista delle elezioni, quella della destra patriottica, incapace di archiviare il sogno fantapolitico della “riconquista” dell’enclave.
La Camera dei Comuni non ha ancora smaltito due disegni di legge a orologeria. Si tratta della «Retained Eu Law», per disboscare la legislazione di origine comunitaria tuttora in vigore nell’ordinamento britannico, e del «Bill of Rights», che sottrarrebbe Londra dalla giurisdizione della Corte europea per i diritti dell’uomo. Una scadenza realistica per aspettarsi progressi è il 10 aprile, quando ricorrono i venticinque anni dell’Accordo del Venerdì Santo. È attesa una visita di Stato del presidente americano, Joe Biden.
Intanto il Regno Unito deve risolvere problemi domestici, se il tempo medio di attesa per un’ambulanza è di un’ora e mezza anche in caso di infarto. È fallito persino il lancio di un satellite, il primo da parte di una nazione in solitaria, tanto da far invidiare al direttore dell’Esa quella capacità industriale in un’intervista al Financial Times. Ma il razzo della Virgin ha subìto anomalie e non è riuscito a raggiungere l’orbita terrestre. A voler essere scaramantici, non un buon auspicio.
Recentemente l’Economist ha riassunto in grafici l’impatto della Brexit. In quelle tabelle, si confronta il tracciato del Paese con quello di una «Doppelgänger Britain», un universo parallelo in cui Londra è rimasta europea. Quella reale fa peggio – e sta sotto la gemella immaginaria – in tutti i campi: crescita del Pil, volume commerciale, investimenti fissi lordi generati. Se l’immigrazione dall’Ue si è contratta, è aumentata invece quella dal resto del mondo.
Nella retorica del 2016, rigurgitata pure dai sovranisti nostrani, la Brexit doveva essere la prima di una serie di altre «exit», con l’Italia e la Grecia tra le principali indiziate. Si sprecavano i neologismi, a seconda dell’avanzata elettorale dei partiti euroscettici nei Ventisette. Sette anni dopo, la Brexit è rimasta soprattutto un ammonimento. I dati dello European Social Survey (Ess) hanno fotografato, dopo quell’anno, il crollo dei favorevoli all’uscita dall’Unione in ipotetici referendum negli Stati membri. Nel frattempo, la «Global Britain» annaspava, capiva di non poter rinunciare alla sua dimensione europea. Indovinate in quale Paese si riscontrano ancora, nei sondaggi, i livelli più alti? Indovinato. L’Italia.