Leggerete quest’articolo nell’ultima giornata di mestizia e frustrazione, malumore e inutilità, rancore e sospensione della vita. Vita che dovrebbe essere sospesa per legge, nei cinque mesi di discontento tra ottobre e marzo.
Oggi è l’ultima giornata di ora solare. Se avete la mia età, la prima cosa che vi viene in mente è «Scatta l’ora legale: panico tra i socialisti» (era un titolo di Cuore, nei gloriosi anni in cui il passatempo delle persone intelligenti era fare battute, e non scusarsi per le battute fatte). Se avete i miei gusti, vorrete invece un governo che l’ora solare la abolisca, e lasci legale solo quella, appunto, legale.
È inaccettabile che agli esseri umani venga chiesto di lavorare, vivere, esistere, produrre reddito, essere di umore accettabile in un mondo in cui fa buio alle quattro. In questo senso, l’ora legale arriva troppo tardi. A fine marzo non fa infatti già più buio alle quattro, e oltretutto ha ormai smesso di esistere l’inverno, quindi l’ora legale non rappresenterà il sollievo che era quando esistevano le stagioni e assieme al prolungamento della luce del giorno arrivavano le giornate di sole.
(Ha smesso d’esistere l’inverno in Italia; sono stata tre giorni a Brighton, senza cielo, col freddo, l’umidità che ti rovina la piega, e volevo piangere e stare con la testa sotto al piumone e mi sono chiesta come diavolo fossi sopravvissuta a un’infanzia d’inverni padani: è proprio vero che da piccoli si hanno risorse maggiori).
L’ora legale dovrebbe essere un sollievo che arriva a gennaio, quando è buio la mattina, è buio il pomeriggio, è buio sempre. E qui tocca parlare del più grave difetto delle società democratiche: la percezione.
Quando in autunno entra in vigore l’ora solare, rendendo ottobre il più crudele dei mesi e senza manco i lillà nella terra morta, c’è sempre qualcuno che si lamenta (io più forte degli altri). E, da quando esistono i social e tutti dobbiamo avere un’opinione sull’opinione di tutti, c’è sempre qualcuno che si lamenta delle altrui lamentele.
Costoro io ogni ottobre mi chiedo in che mondo vivano, giacché ogni ottobre dicono: voi non pensate alla gente che si alza presto per andare a lavorare e trova il buio, ora almeno ci sarà luce al mattino, viva l’ora solare, più ora solare per tutti, gloria all’ora solare, ora solare benefattrice dell’umanità.
E io ogni volta mi chiedo cosa intendano loro per «presto». Accade infatti che, sebbene come argutamente da loro notato non abbia mai presenziato alla catena di montaggio ma tutta la vita abbia battuto la fiacca, io sia purtroppo abbastanza insonne da vedere molte mattine. Prima d’essere insonne, ero giovane abbastanza da andare a scuola e da doverci come tutti andare alle otto, e insomma purtroppo le sette di mattina, ma pure le sei, sono un orario che m’è familiare. E io vi assicuro che a gennaio a quell’ora è buio. Ma buio pesto. Inizia a rischiararsi tra le sette e mezza e le otto. E quindi questa gente che dice di andare a lavorare presto e dice che c’è luce, cosa intende con «presto»? Le nove? Sono forse romani?
A Bologna c’è una famosa clinica psichiatrica, abbastanza famosa da essere usata localmente come metonimia di malattia mentale: come un po’ ovunque in questo secolo liquidiamo chi dice cose bislacche con «devi prendere le goccine» (o, i più cinefili, «devi cambiare il piano terapeutico», espressione che perlopiù non avevamo mai sentito prima di vedere La pazza gioia), così nel Novecento a Bologna si diceva «sei pronto per Villa Baruzziana».
Un intellettuale che conoscevo ci si ricoverò allorché lasciato dalla donna che amava. Raccontò che, per non disperarsi troppo, era andato a fare la cura del sonno. Sono passati trent’anni e io ancora fantastico: cos’è la cura del sonno? Ti tengono una settimana sotto barbiturici? (Esistono ancora i barbiturici?).
Qualunque cosa sia, la cura del sonno, sono pronta a votare il primo partito che metta nel programma di governo il letargo di stato da ottobre a marzo. C’è un problema di coperture umane (se tutti hanno diritto a essere sedati nei mesi in cui fa buio alle quattro, chi vigila sui dormienti? Mica si possono vessare medici e infermieri facendoli stare svegli in quei mesi deprimentissimi), ma è l’unico provvedimento che può fare una qualche differenza nella qualità della (mia) vita.
Io, cinque mesi l’anno, non voglio esistere. Non perché sono depressa: perché sono sana di mente. E nessuno sano di mente può pensare che una giornata duri altre sei, otto, dieci ore dopo che ha fatto buio. Nessuno che non abbia più l’età dei rave.
Sono convinta che le recenti fortune del digiuno intermittente – cioè: far passare quattordici o più ore tra la cena e la colazione – siano un modo come un altro di rassegnarsi all’ora solare. Quando fa buio la giornata finisce, e se finisce mica ti metti a cucinare. Se finisce ti metti a letto, e se ne parla domani a colazione. Sospetto altresì che il minore apporto calorico dovuto al digiuno intermittente sia vanificato dallo stare a letto sedici ore.
Non c’è soluzione, come d’altra parte non c’è soluzione a nessuno dei problemi che davvero affliggono l’umanità, in questa stupida civiltà che si concentra solo sull’inventare soluzioni a problemi inesistenti.
Non sapete come andare su Marte? Pronti, troviamo il modo, ecco i razzi comodamente prenotabili. Vi serve che quella grandiosa rottura di coglioni che è il telefono vi renda reperibili non solo quando siete a casa? Eccoci, un comodo telefono da borsetta.
Ma i figli continuano a doverli partorire le donne, se paghi la business class comunque ti trovi sulla scaletta dell’aereo a dover aspettare che salgano tutti quelli che hanno fatto il biglietto a 19 euro, e le giornate in cui ci sono dodici ore di luce tutto l’anno ancora non riusciamo a inventarle, nel ventunesimo secolo dopo Cristo.
Non condivido la diffusa antipatia per i plutocrati, però, Elon: fai il piacere di concentrarti sulle questioni serie. Se proprio non riesci a brevettare le giornate in cui fa luce tardi anche d’inverno, almeno trova il sistema che renda possibili i cinque mesi di letargo per tutti. Sono persino pronta a pagare Twitter, in cambio.