Nella speranza di placare un’angoscia strisciante, la mattina del 7 gennaio 2021 sono uscito dal mio albergo a Washington, ho chiamato un taxi e mi sono fatto portare al Lincoln Memorial. Speravo che in quello spazio aperto, progettato per dare l’idea di un tempio, avrei trovato una specie di rifugio. C’ero già stato un paio di volte, negli anni; quando attraversi le colonne di marmo il silenzio non ti mortifica, ti accoglie. Peccato fosse chiuso. Una dopo l’altra, arrivavano auto di pattuglia. Gli agenti tenevano a distanza la folla, che inveiva. Molti cappellini maga – Make America Great Again –, molte magliette TRUMP 2020. Ho cercato di farmi raccontare cosa fosse successo. A quanto pareva, quando una donna si era messa in posa per le foto con una bandiera libertaria – la Gadsden, quella con DON’T TREAD ON ME on me in campo giallo sotto un serpente con la lingua di fuori – un poliziotto le aveva spiegato che esibizioni del genere non erano permesse. Da lì i tafferugli.
Ora i trumpiani si stavano raccogliendo ai piedi della gradinata – la stessa da cui nel 1963 Martin Luther King pronunciò il suo «I Have a Dream» – e cominciavano a chiamare i poliziotti nel solito modo: nazisti, marxisti, porci. Ragazzi in blazer blu mostravano il medio, e poi tutti in coro: «Cristo re!». «Non è che le fighette siamo noi?» ha chiesto un omino senza capelli. «Ma perché non sfondiamo? Davvero, eh?». «Di solito a questo punto attaccano con le esecuzioni sommarie,» ha detto una donna sulla trentina, squadrando con odio la polizia. Fra gli agenti che si stavano facendo insultare senza batter ciglio, parecchi dovevano avere qualche amico in ospedale, ho pensato. Neanche ventiquattr’ore prima avevo visto Donald Trump arringare una folla simile a questa, anche se molto più numerosa, raccolta sull’altro lato dello specchio d’acqua. «Se non lottate alla morte vi ritroverete senza un paese,» aveva urlato.
Migliaia di persone – molte con bastoni, mazze, fruste e altre armi improvvisate – si erano messe in marcia verso il National Mall. Al Campidoglio avevano ferito 180 agenti, caricato sotto le nuvole di spray al peperoncino, sfondato porte e finestre e dato furiosamente la caccia ai politici, tutto con l’idea di impedire una transizione pacifica. Chi brandiva cappi, chi ringhiava epiteti razzisti, chi aggrediva i giornalisti, chi proponeva di linciare il vicepresidente.
Dentro il Senato avevo visto i sostenitori di Trump saccheggiare scrivanie e portarsi via documenti riservati. Un uomo a torso nudo, con lancia e palco di corna, aveva chiamato Mike Pence «traditore del cazzo», per poi invitare i rivoltosi a una preghiera collettiva. Un agente, attaccato con lo spray urticante, aveva avuto un ictus. Di lì a poco era morto. Eppure, ventiquattr’ore dopo, gli indignati non erano i poliziotti, ma i trumpiani. Anche stavolta erano convinti di aver subito un torto. E fremevano di indignazione. La donna con la Gadsden era un pastore di Los Angeles. «Sono sicura che sono stati gli Antifa». A prendere d’assalto il Campidoglio, intendeva. «Ne sono più che sicura. Perché qui invece,» e ha fatto un gesto ampio, ad abbracciare la folla livida che stava insultando la polizia, «c’è un bellissimo spirito di comunità». Si è messa a piangere. «Ma come si permettono?». Intendeva gli agenti. «Perché il paese è ridotto così male? Questa non è la mia America. Io non capisco». Eravamo in due. Sono riuscito a farle solo una domanda. «E adesso?». Il pastore si è asciugata le lacrime. Soffriva, moltissimo. «Ma ascoltami,» ha detto, fra i singhiozzi. «Io non porgerò l’altra guancia. Non è giusto. È un’ingiustizia. Un’ingiustizia».
La prima epidemia di cui mi sono occupato professionalmente è stata quella di ebola in Africa occidentale, nel 2014. A un virus molto più contagioso e mortale del covid-19, la comunità internazionale stava opponendo una reazione a dir poco inadeguata. Uno dei primi focolai era stata la più grande baraccopoli della Liberia, un fitto dedalo di rudimentali catapecchie sulla lingua di terra che dal centro di Monrovia si allunga nell’Atlantico. Sotto un intrico di lamiere arrugginite vivevano ottantamila persone senz’acqua corrente, che evacuavano negli spazi angusti tra i muri e per proteggere gli argini del fiume dall’erosione usavano la spazzatura.
Quando il virus aveva cominciato a portarsi via intere famiglie, l’esercito aveva messo giù muri e filo spinato, isolando tutto. Gli elicotteri d’assalto pattugliavano la costa. Il crimine dilagava, e il panico anche. I soldati sparavano su chiunque provasse a scappare. La comunità pareva spacciata. Nel giro di dieci giorni gli emissari della baraccopoli avevano convinto il governo a togliere il blocco. In cambio, si erano impegnati a mettere in atto una serie di misure: identificazione e isolamento dei malati in casa, tracciamento dei contatti recenti, controllo di ogni individuo per un periodo di tre settimane (la durata massima nota dell’incubazione, prima della comparsa dei sintomi). In una situazione normale, il lavoro sarebbe toccato a personale sanitario ed epidemiologi. Nella baraccopoli avevano provveduto i diretti interessati. E contro ogni aspettativa, l’ondata era stata contenuta in un mese. Monrovia non era rimasta un’eccezione.
In assenza di soccorsi – da parte del mondo ma anche dei governi dell’Africa occidentale, tra i più poveri della terra – i popoli della regione avevano dimostrato di poter sopravvivere cooperando. I quartieri si erano mobilitati. Il personale sanitario si era messo a disposizione su base volontaria. I villaggi isolati avevano istituito task force, introducendo quarantene e distanziamento sociale. E l’informazione aveva svolto un ruolo cruciale.
All’inizio impazzavano le teorie del complotto. Molti credevano che il virus fosse un piano malefico per sollecitare l’afflusso di donazioni straniere. I guaritori spiegavano i capricci della morte e della malattia in termini metafisici. In un borgo remoto della Sierra Leone, dove il virus aveva ucciso più di trenta persone, il capo aveva sentito dire che nelle vicinanze era precipitato un aereo di linea, e che per ogni passeggero morto doveva morire un abitante del villaggio. «Questo ci veniva detto,» mi aveva spiegato con un certo imbarazzo. «E per via di come è fatta la nostra cultura, ci credevamo». Ma appena i funzionari della Sierra Leone erano andati da lui per informarlo sull’epidemia, il capo aveva capito che si metteva male. Seguendo il consiglio di alcuni esperti, aveva proibito l’unzione dei cadaveri e altri rituali di sepoltura, messo in quarantena i casi sospetti e formato una squadra che assicurasse un serio tracciamento dei contatti. Al mio arrivo, nel villaggio non c’era neppure un caso.
All’apice dell’epidemia il CDC aveva dichiarato che l’ebola rischiava di infettare un milione e mezzo di africani occidentali in soli due mesi. La fosca previsione si basava sull’assunto che non si sarebbe registrato alcun «cambiamento nei comportamenti delle comunità». Gli africani occidentali hanno dimostrato che non stava in piedi: i contagi sono stati meno di trentamila. Mentre ascoltavo una dopo l’altra storie di coraggio, tenacia e intelligenza davanti a quell’implacabile cataclisma, una domanda continuava ad assillarmi. In un’emergenza del genere, come si sarebbe comportato il mio paese? L’isteria collettiva provocata da quattro casi di ebola in Texas e New York non prometteva bene. D’altronde chissà, magari davanti a un vero disastro ci saremmo dimostrati all’altezza. Forse, come gli africani occidentali, che avevano pur sempre alle spalle anni di guerra civile, avremmo accantonato le divergenze per allearci contro un nemico comune. Quando il vero disastro è arrivato, Donald Trump ci ha chiesto di fare esattamente questo. «Ora tocca a noi,» ha dichiarato dalla Casa Bianca nel marzo del 2020, in un discorso insolitamente asciutto. «Dobbiamo fare sacrifici insieme, perché siamo tutti nella stessa barca».
Nell’anno successivo, il covid-19 ha ucciso, da noi, mezzo milione di persone, molto di più che in qualunque altro paese. Schiere di americani si sono gettate nelle braccia di una setta millenaristica nata su internet che profetizzava un assassinio di massa moralmente giustificato. Il tribalismo politico, l’ombra del fascismo e una demagogia fuori controllo hanno messo i cittadini gli uni contro gli altri, sia in rete che per le strade. Un turbine furioso di propaganda ha completamente offuscato la realtà. Banche, uffici postali e stazioni di polizia sono andati a fuoco. Migliaia di soldati sono stati inviati in decine di città. L’estremismo religioso ha proliferato.
Le armi da fuoco hanno fatto quasi ventimila vittime, il bilancio più alto degli ultimi decenni. I crimini d’odio sono schizzati alle stelle, come le morti per overdose e le violenze domestiche. La fiducia nella stampa, e quella nel nostro sistema di governo, sono andate in pezzi. Parlare di guerra, rivoluzione e addirittura apocalisse è entrato a far parte della vita quotidiana. E politici regolarmente eletti hanno tentato un colpo di stato. Prima della pandemia avevo raccontato soprattutto guerre: in Afghanistan, Siria e Iraq.
Ho sempre avuto l’impressione che, a prescindere dalle posizioni politiche, gran parte degli americani pensino una cosa simile, e cioè che a causa di un qualche difetto intrinseco – cui noi saremmo immuni, e per il quale non avremmo quindi antidoto – certe società sono predisposte al disordine e al confitto.
Personalmente, non ho mai dubitato che, in circostanze particolari, anche gli Stati Uniti verrebbero trascinati nelle stesse spirali di violenza che vediamo all’estero. Ma quali sarebbero, queste circostanze particolari? Per tutto il 2020, girando l’America per il «New Yorker», ho visto la frustrazione per le politiche di contenimento del covid-19 montare fino a prendere la forma di un fanatico movimento antigovernativo, che dopo una fase di opposizione militarizzata alle richieste di giustizia sociale è degenerato in una vera e propria crociata contro la democrazia.
Il 6 gennaio non è stato il picco di quell’evoluzione, bensì uno dei suoi stadi. Vedremo quale sarà il prossimo. Salutato il pastore al Lincoln Memorial, ho chiamato una macchina per farmi riportare in albergo. L’autista era appena immigrato dall’Etiopia. Si è messo a chiacchierare, ma soprattutto a fare domande. Non solo sull’insurrezione, su tante altre cose viste nell’ultimo anno e assolutamente incompatibili con tutto ciò che si aspettava venendo a vivere in America.
«Come è potuto succedere?» voleva sapere. Ho balbettato qualcosa di generico. Cosa dovevo rispondergli? «Per via di come è fatta la nostra cultura, ci abbiamo creduto»? Avrei preferito dirgli qualcosa di sensato. Ci sono stato, nella sua posizione. E ne ho fatte, di domande come quella: in tante occasioni, in tanti posti. Una risposta onesta, però, mi avrebbe richiesto molto più tempo di quanto ne avessimo.
© 2023, Garzanti s.r.l., Milano Gruppo editoriale Mauri Spagnol.
Da “La tempesta è qui”, di Luke Mogelson, Orville Press, p. 448, 22€