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Prima del 2022 sapevate che faccia avesse il segretario generale della Nato? Lo screen time di Jens Stoltenberg l’anno scorso ha raggiunto i massimi storici. L’ex primo ministro norvegese aveva altri piani – stava per trasferirsi alla guida della Banca centrale del suo Paese – e dopo il 24 febbraio, come tutti noi, li ha stravolti. Mentre Stoltenberg diventava un volto familiare, uno di quelli che riconosci al telegiornale, riscoprivamo il logo dell’Alleanza atlantica, con l’Otan francese speculare alla sigla anglosassone. Intanto, le bandiere con la rosa dei venti spuntavano nelle piazze per l’Ucraina di tutto il continente.
Anche la Nato ha sede a Bruxelles, come le tre istituzioni che sono l’architrave dell’Unione europea (il Parlamento migra a Strasburgo per le plenarie una volta al mese). Le porte sono girevoli, i corridoi comunicanti. Il «profilo istituzionale» aiuta. Anzi, è uno dei requisiti per la posizione che si riaprirà in autunno, quella apicale. Per candidarsi a fare il segretario generale, di fatto, bisogna avere nel curriculum un mandato – meglio ancora se più di uno – da premier, o ai vertici di un ministero come Difesa o Esteri.
Lo stipendio è buono, anche se online non è semplice capire a quanto ammonti esattamente. Sul sito dell’Alleanza c’è una tabella aggiornata con l’inflazione: moltiplicando la fascia più alta (sedicimila euro netti al mese) per tredici o quattordici mensilità ci si avvicina alla cifra di cui si trova riscontro sui giornali stranieri (227mila dollari l’anno, poi ci sono i benefit). Abbiamo provato a chiedere conferme all’Ufficio stampa della Nato. Vi aggiorneremo nelle prossime puntate: se non ce ne fossero, sapete perché.
Gli Stati membri della Nato
Fondatori
🇧🇪🇨🇦🇩🇰🇲🇫🇮🇸🇮🇹🇱🇺🇳🇴🇳🇱🇵🇹🇬🇧🇺🇸
Gli allargamenti
🇬🇷🇹🇷1952 | 🇩🇪1955 |🇪🇸1984 | 🇵🇱🇨🇿🇭🇺1999 | 🇧🇬🇪🇪🇱🇻🇱🇹🇷🇴🇸🇰🇸🇮2004 | 🇦🇱🇭🇷2009 | 🇲🇪2017 | 🇲🇰2020
In ogni caso, la selezione è aperta. La portavoce del segretario ha confermato che il diretto interessato lascerà l’incarico alla scadenza, il prossimo ottobre. Il chiarimento è arrivato dopo le voci, a mezzo stampa, su un possibile prolungamento. Ce ne sono stati tre, non ce ne sarà un quarto. Dopo quasi nove anni, Stoltenberg «non ha intenzione di ottenere un’altra estensione», ha detto Oana Lungescu. La formula è ambigua al punto giusto: lui non vuole restare in carica, ma se glielo chiedono? Se l’attualità militare in Ucraina lo costringesse a rimanere? Sono variabili da includere nell’equazione. Nel 2015 ha incontrato Sergio Mattarella al Quirinale, potrebbe richiamarlo per chiedergli una dritta.
L’ex primo ministro laburista di Oslo è entrato in servizio nel 2014. Il mandato dura quattro anni. Nel marzo 2019 è stato allungato fino al settembre 2022. Un’ultima proroga a marzo dell’anno scorso, dopo l’invasione russa dell’Ucraina, con la minaccia al fianco orientale della Nato, il ricorso dei Baltici all’articolo 4 del Trattato (ogni Stato membro può chiedere consultazioni se ritiene in pericolo la sua sicurezza) e il timore di dover attivare da un momento all’altro il quinto, quello che recita: «un attacco armato contro una o più di esse in Europa o nell’America settentrionale sarà considerato come un attacco diretto contro tutte le parti».
Il segretario generale viene scelto dai trenta Paesi membri dell’Alleanza, attraverso consultazioni diplomatiche informali. I governi propongono i loro candidati e si va avanti finché non viene raggiunta un’intesa sul nome. «La posizione è stata tradizionalmente ricoperta da una figura politica senior europea», recita il sito della Nato. Vediamo quali sono, oggi, queste figure.
La trazione della Nato è americana, e gli Stati Uniti coprono il settanta per cento del suo budget, com’è che all’Europa spetta «tradizionalmente» il segretario? È una regola tacita, in realtà. Dal 1952 a Washington – o, meglio, a un suo generale – spetta il posto di Comandante alleato supremo, fondamentale in un organismo di carattere militare, ancorché difensivo. Ai cugini europei, spesso bacchettati perché non raggiungono il target del due per cento delle spese militari in rapporto al Pil, va invece il top job civile.
Numero di segretari generali espressi per Paese
3🇬🇧🇳🇱
2🇧🇪
1🇮🇹🇩🇪🇪🇸🇩🇰🇮🇸
Di profili con la seniority adatta, tra la prima fila e il retropalco della politica europea, è pieno. A patto di declinarli al femminile. Sull’Alleanza, già prima che il conflitto scatenato da Vladimir Putin rinviasse la partita, c’erano già pressioni diplomatiche affinché la guida toccasse finalmente, e per la prima volta, a una donna. Il presidente americano Joe Biden ritiene sia arrivato il momento, e il placet della Casa Bianca è il prerequisito indispensabile per la nomina. Tra i partner europei, almeno a parole, c’è l’unanimità. Gli ultimi tre segretari sono originari, a ritroso, di Norvegia, Danimarca e Paesi Bassi. L’albo storico delle nazionalità suggerirebbe possa essere il turno dell’Europa Orientale o Mediterranea.
Il nostro Paese ha espresso un solo segretario, Manlio Brosio, tra il 1964 e il 1971, ma due facenti funzioni. Sia Sergio Balanzino (nel ’94 e nel ’95) sia Alessandro Minuto-Rizzo (tra 2003 e 2004) hanno ricoperto ad interim la posizione quando erano vice. Nella categoria dei vicesegretari, l’Italia ha invece primeggiato: ne vanta dieci sui diciassette totali. L’ultimo è stato Claudio Bisogniero, tra il 2007 e il 2012.
La principale indiziata sembra Ursula von der Leyen. È il nome della settimana. Repubblica ha parlato di una «mossa del cavallo» per l’attuale presidente della Commissione europea. In base alla ricostruzione, il piano B le serve soprattutto come strumento di pressione sui contraenti della «maggioranza Ursula». La sua riconferma, nel 2024, non è scontata: come abbiamo già scritto in questa newsletter, i (suoi) Popolari europei non sono entusiasti dell’agenda green e il plenipotenziario del Ppe, Manfred Weber, guarda ai conservatori di Ecr come possibili alleati del futuro, magari con la presidente dell’Europarlamento Roberta Metsola nelle vesti di Spitzenkandidat.
Il principale caveat è il fattore tempo. Il mandato di von der Leyen scade nell’estate del 2024: vista l’emergenza perenne in cui vive l’Unione, passata dal contenimento del coronavirus a quello delle mire imperialiste di Putin, non è ipotizzabile una staffetta a Bruxelles prima della fine naturale del quinquennio. A meno che Stoltenberg non acconsenta a una reggenza di qualche altro mese, magari per poi sostituire David Malpass alla presidenza della World Bank. La mossa di von der Leyen cambierebbe lo scenario dopo le prossime Europee. Se spera in una riconferma, non è infatti sicura di poterla ottenere.
L’accordo che ha permesso la nascita del governo di Olaf Scholz, sotto l’egida della «coalizione semaforo» con i Verdi e i liberali di Fdp, assegna agli ambientalisti il posto tedesco nella prossima Commissione. Per capirci, quello che al momento occupa la presidente. La condizione perché scatti questa spartizione, però, è che non sia della Germania anche il vertice della Commissione.
Insomma, i contraenti hanno lasciato uno spiraglio al bis di von der Leyen: il cancelliere sarebbe pronto a concederlo pur di sventare l’esclusione dei Socialisti, la cui reputazione è stata danneggiata dal Qatargate, dalla condivisione del potere nelle istituzioni comunitarie. Anche se non esprimono più capi di Stato, e potrebbero perdere una decina di deputati rispetto agli attuali 176, i Popolari saranno probabilmente il gruppo più numeroso anche del futuro Parlamento.
Tra le papabili veniva citata anche la premier estone Kaja Kallas, che però è stata appena rieletta. Della prima ministra sono state molto apprezzate le dichiarazioni pubbliche, nonché l’attivismo per Kyjiv fin dalle prime ore: con un’assistenza anche militare, una mobilitazione pesante punti percentuali del prodotto interno lordo, e la certezza che con Putin non si può trattare da una posizione di debolezza, o con la preoccupazione – emersa in certe fasi sull’asse francotedesco – di lasciargli una «via d’uscita» non troppo disonorevole.
Un nome a sorpresa potrebbe essere quello di Sanna Marin. Come ha spiegato Politico, se la prima ministra resta molto popolare tra l’elettorato finlandese, il suo partito Socialdemocratico è in calo nei sondaggi. È incalzata dall’ultradestra dei Veri finlandesi, mentre i rivali dell’opposizione di centrodestra l’hanno già sorpassata (ripetiamolo: nelle rilevazioni demoscopiche). Si vota il 2 aprile.
Marin governa in coalizione con verdi, centristi e sinistra: queste altre tre gambe della maggioranza si attestano ciascuna tra il nove e il dieci per cento. Sulla carta, quindi, la premier potrebbe avere i numeri per ripetere la coalizione uscente. Dopo un’eventuale sconfitta, potrebbe senz’altro puntare su un posto in Europa. A S&D una figura come la sua piacerebbe, e non poco, come Spitzenkandidat.
Un nome circolato molto, soprattutto sulla stampa americana, è quello della vicepremier canadese Chrystia Freeland. È nipote di emigranti ucraini e nel 2015 ha scritto un saggio dal titolo “La mia Ucraina” dove racconta come i suoi nonni fossero «degli esuli politici con la responsabilità di tenere in vita l’idea dell’Ucraina indipendente». È un’ipotesi poco praticabile, però, perché il Cremlino potrebbe strumentalizzare quello stesso passato familiare, già reso pubblico dai media di Ottawa. Il nonno ha militato nel nazionalismo ucraino e avrebbe lavorato a Krakivski Visti, un giornale su posizioni filonaziste e antisemite.
Altre tre possibili candidate, meno mediatizzate di quelle qui sopra, secondo il Network for Strategic Analysis sono la presidente slovacca Zuzana Čaputová, che terminerà l’incarico nel 2024; l’ex ministra degli Esteri olandese Jeanine Hennis-Plasschaert e l’italiana Federica Mogherini, ex Alta rappresentante dell’Ue, rimasta a Bruxelles come rettrice del College of Europe.
L’ex prima ministra britannica Theresa May ha accarezzato l’idea di una «seconda vita» alla Nato (il suo collega Boris Johnson ci si è recentemente autocandidato), ma il Regno Unito rischia di scontare l’isolamento post Brexit, nonostante Londra si consideri un ufficiale di collegamento tra Europa e America. Ventuno dei trenta Stati membri dell’Alleanza fanno infatti anche parte dell’Ue.
Lo stesso discorso vale per il ministro inglese della Difesa, Ben Wallace. Si è speculato su Mark Rutte, ma il premier dei Paesi Bassi potrebbe chiudere con la politica dopo l’ultimo mandato. Mario Draghi sarebbe stato un eccellente candidato, ma non sembra interessato. Altri scommettono sullo spagnolo Pedro Sánchez, anche lui atteso dalle urne a dicembre. Una conclusione da annotare, infine, è che i nomi più solidi nella corsa alla successione di Stoltenberg sono di donne: e anche questo è un dato storico. Indietro non si torna.