C’è una scena del Secondo tragico Fantozzi in cui il ragioniere, grazie a una soffiata, pur di ottenere un impiego («con la qualifica di spugnetta per francobolli») si spaccia per amante del cinema espressionista tedesco. Sta tornando, insieme al countdown verso le prossime elezioni europee, quella stagione in cui nelle redazioni del continente fingiamo di sapere cosa voglia dire «Spitzenkandidat». Al posto di Murnau e Robert Wiene, però, c’è Manfred Weber, il capogruppo del Partito popolare europeo (Ppe). Che comunque è bavarese, per dire.
La vera millanteria è sullo spelling. Sul significato ci siamo: sta per «candidato di punta» o «capolista». Dal 2014, anche per aumentare il coinvolgimento dei cittadini e quindi l’affluenza, le famiglie politiche dell’Ue sono incoraggiate a indicare un candidato presidente della Commissione europea prima del voto. La conversione, però, non è automatica.
Ha funzionato con Jean-Claude Juncker dei Popolari, per esempio, ma non con lo spitzenkandidat del 2019: lo stesso Weber, affondato dal Consiglio europeo nonostante il sostegno dell’allora cancelliera Angela Merkel. È nata lì la «maggioranza Ursula», dal nome della presidente eletta – sempre tedesca, sempre del Ppe – Ursula von der Leyen. Il patto istituzionale con i Socialisti in crisi di credibilità e la benedizione macroniana di Renew Europe, oggi, vacilla proprio a causa dei flirt di Weber con la destra-destra, riunita nel gruppo dei Conservatori e riformisti (Ecr).
Il Ppe deve decidere da che parte stare. A metà gennaio, mentre era in corso la plenaria dell’Europarlamento, i leader dei suoi partiti si sono visti proprio per iniziare a costruire la strategia per il 2024. I Popolari, rispetto al passato, sono sovra-rappresentati. Hanno 176 eurodeputati, quando a fine anni Novanta ne avevano 295; non esprimono più capi di governo. Per arginare il declino, qualcuno ipotizza di allargare la coalizione a Giorgia Meloni, di cui tanti in Europa invidiano i voti, ha scritto Politico.
Per quanto sia (ancora) fantapolitica, il dibattito sugli – anzi, sulle – spitzenkandidaten può dare qualche indizio su quali percorsi ci siano, in questo momento, sullo schermo del navigatore del centrodestra europeo. In un’intervista al Berliner Morgenpost, Weber ha fatto due nomi. «Tutte le carte opzioni sono sul tavolo», ha premesso, ma poi ha indicato due profili. «Ursula von der Leyen e Roberta Metsola sono personalità convincenti, sarebbero entrambe eccellenti candidate».
L’attuale presidente, von der Leyen, non ha ancora detto se intende ripresentarsi per un secondo mandato. Nell’intervista, Weber si è messo fuori dai giochi: «Sono troppo impegnato a guidare il Ppe e nel processo di selezione». Per quell’impiego, ha scoperto Eddy Wax di Politico, il presidente riceve ventimila euro al mese, quindi ci si può aspettare un certo aziendalismo. Non ha però mai nascosto la frustrazione per essere stato silurato da Emmanuel Macron nel 2019 in quella che continua a chiamare una «grave sconfitta» per la democrazia. Cioè aver ucciso le ambizioni dello Spitzenkandidat. Cinque anni dopo, potrebbe accontentarsi di fare il king-maker.
«Queen’s gambit». Con questo titolo, Malta Today ha rilanciato le voci sul fatto che il suo partito ritiene la presidente dell’Europarlamento una possibile candidata di compromesso, specialmente se Von der Leyen si facesse da parte. A gennaio 2022, Metsola è stata eletta al vertice dell’aula anche con i voti di Ecr e, al ballottaggio, con quelli di Renew. Da sola, la somma tra Popolari e Conservatori non avrebbe i numeri per spuntare la nomina. Metsola è ritenuta in grado di poter intercettare il voto dei centristi, che però si sono già tirati fuori: la prerogativa europeista non è negoziabile. «Nonostante l’ascesa dei partiti populisti, crediamo che le elezioni si vincano al centro».
I teorici della svolta a destra additano Roma come modello. Gli affiliati locali di Ppe ed Ecr coabitano nella stessa maggioranza, dove però Forza Italia è junior partner di Fratelli d’Italia. Ne fa parte pure la Lega, coinquilina in Europa di Marine Le Pen nel gruppo Identità e Democrazia (Id). Il coordinatore azzurro (e ministro degli Esteri) Antonio Tajani non lo ha escluso. «Ci può sicuramente essere un’alleanza, magari allargata ai liberali – ha detto al Corriere della Sera –, che è poi è quella che portò alla mia elezione alla presidenza del Parlamento europeo nel 2017. Parliamo di qualcosa che è già consolidato».
«Non possiamo lavorare con gli estremisti», ha detto a settembre la diretta interessata. Intervistata da Euractiv, proprio sulle possibili convergenze alla vigilia delle elezioni italiane, Metsola ha spiegato di non poter parlare per il suo partito, alla luce del ruolo istituzionale che ricopre. Quel «Non possiamo collaborare con chi vuole distruggere l’Europa», pronunciato nell’occasione, suona stentoreo. Il cordone sanitario già esclude Id dal governo comunitario, ma anche Ecr ha i suoi impresentabili. Su Diritto e Giustizia (PiS) c’è il veto dei polacchi del Ppe, rivali alle prossime elezioni, dove sono capitanati da Donald Tusk.
Il pontiere dei buoni rapporti tra Ppe ed Ecr, scrive Euractiv, sembra essere «un fedelissimo di Meloni, il ministro degli Affari europei Raffaele Fitto». Oltre a Weber, incontrato in occasione dei funerali di Papa Benedetto XVI, la premier ha tenuto lunghi colloqui con Metsola a Bruxelles e von der Leyen a Roma, dove questa settimana è passato il presidente del Consiglio europeo, Charles Michel (che però milita in Renew). Non ha chiuso a un apparentamento con Meloni neppure il segretario generale del Ppe, Thanasis Bakolas: «Manteniamo una mentalità aperta, vogliamo estendere la nostra tenda».
Insomma, Meloni è considerata un’interlocutrice credibile. Almeno, più dei suoi alleati europei. Un appeal misurabile nella pattuglia che porterà in dote a Strasburgo nel 2024. La crescita di Ecr, però, sondaggi alla mano sarà di una dozzina di seggi: 74 rispetto agli attuali 62. In attesa di rilevazioni che registrino l’impatto del Qatargate, i Socialisti arretrerebbero in proporzione ai popolari, perdendo una decina di eletti. Sulle proiezioni spesso incide la volatilità negli Stati più popolosi, quelli che eleggono più deputati, ma – a oltre un anno dalle urne – gli scarti non sembrano pronosticare un cataclisma.
Quanto sono lontani i tempi (ma era solo lo scorso autunno) in cui il plenipotenziario Weber doveva rispondere ai malumori dell’ala tedesca, che gli aveva scritto una lettera per chiedere addirittura l’espulsione dei forzisti, in virtù della loro partecipazione a un governo sovranista come quello della Meloni.
L’«ipotesi Metsola», dentro il centrodestra europeo, ha una sua fondatezza. Sarebbe un volto nuovo, mentre i rapporti di Ursula von der Leyen con il Ppe non sono così cordiali come vengono descritti. La principale iniziativa della sua Commissione, il Green Deal europeo, è una battaglia forse più cara agli alleati socialisti. Una ricandidatura della presidente potrebbe creare malumori, almeno all’interno del partito e della sua parte più vicina al mondo dell’industria.
Sarà il congresso, previsto all’inizio dell’anno prossimo, a eleggere democraticamente la (o lo) Spitzenkandidat. Se ci fosse più di un candidato, lo sceglieranno i delegati. Gli europarlamentari lo sono per diritto, ma ogni partito della famiglia (sono ottantuno) ha per statuto un certo numero di voti. In Italia, Forza Italia ne ha tre (tra gli altri ci sono Udc e Südtiroler Volkspartei), a cui sommare gli eurodeputati. La Cdu tedesca ne ha dodici, più tre della Csu bavarese. Vincere le primarie può non bastare, come dimostra il caso di Weber, che aveva trionfato a Helsinki nel 2018.
Per restare a Malta, un possibile ostacolo viene dagli equilibri politici isolani. Dal 2013 governano i laburisti, che furono di Joseph Muscat e sono di Robert Abela. Metsola proviene dallo schieramento avverso del bipolarismo, i nazionalisti, che la immaginano premiership material in futuro, ma potrebbero aspettarsi faccia campagna per loro già prima, nel 2024, nella speranza di rimontare sulla sinistra, sulla quale registrano nei sondaggi un distacco in doppia cifra.
Si è votato a marzo 2022: sarà probabilmente l’attuale esecutivo a segnalare, quindi, il candidato di La Valletta per la Commissione. Concedere il posto a una rivale, per i laburisti, sarebbe un atto di fair play (è accaduto nel 2009, a parti invertite, quando il nazionalista Lawrence Gonzi nominò presidente proprio il padre di Abela).
Da Malta alla Scandinavia. Uno dei più letti giornali finlandesi, il Maaseudun Tulevaisuus, ha speculato che i Socialisti in cerca di rilancio potrebbero provare a opzionare la prima ministra Sanna Marin come propria Spitzenkandidat. Ha incarnato una apprezzata linea di fermezza sulla Russia e sta traghettando il Paese nella Nato. In Finlandia si vota il 2 aprile e lei è saldamente in campo per la riconferma, nonostante un leggero calo nei sondaggi e la risalita degli avversari a destra. Solo in caso di sconfitta sarebbe plausibile immaginare un «secondo tempo» a Bruxelles. Resta una suggestione finora meno concreta di quella di Metsola.
Un anno, in politica, è un arco di tempo estremamente lungo. Troppe variabili devono ancora andare al loro posto, le “papabili” sono ancora trincerate dietro un «no comment». Probabilmente non hanno ancora deciso. Due di loro – Marin e Metsola – tra l’altro sono (insieme alla premier estone Kaja Kallas) le donne europee del 2022 di Linkiesta. Per concludere, i nomi che circolano riflettono sicuramente gli spostamenti tettonici della politica comunitaria, ma proprio come nel calciomercato è presto per ritenerli attendibili, o qualcosa di più di rumors. Un dato da sottolineare, a suo modo storico, però c’è. Sono tutte donne.
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