Poi ci sono i morti in mare che non puoi contare. Quelli che non conosci, che appartengono al mondo dei “se” e de “ma”. Come sarebbe andata a finire se…
Già. Come sarebbe andata a finire se la nave Juventa, dell’organizzazione non governativa berlinese Jugend Rettet, fosse ancora a pattugliare il Mediterraneo? Numeri, ipotesi. Nel suo unico anno e mezzo di attività, a partire dal 2016, la nave, un bestione lungo 33 metri, progettata per lavorare nelle condizioni più impervie nei mari del Nord, ha contribuito al soccorso nel Mediterraneo di 14mila persone. A bordo, un gruppo di giovani volontari tedeschi, medici, vigili del fuoco, studenti, pure un astrofisico. Hanno scelto di essere testimoni oculari e di mettersi a disposizione per salvare vite nel Mediterraneo centrale.
E chissà quante altre vite avrebbero potuto essere salvate, in questi anni. Perché dall’agosto del 2017 la nave Juventa è sequestrata e abbandonata al porto di Trapani.
Per capire la complessità del tema dei migranti, oltre la cronaca dei morti e dei naufragi, non c’è da annunciare la caccia agli scafisti nel «globo terracqueo». Forse bisognerebbe venire a Trapani. Nel tribunale del capoluogo siciliano, infatti, si celebra in questi mesi un processo più unico che raro, il processo a ventuno giovani membri di organizzazioni umanitarie. Per loro l’accusa è di favoreggiamento all’immigrazione clandestina. È un processo che in tutta Europa è unico nel suo genere.
Prende il via da una maxi inchiesta del 2016 (nel frattempo a Trapani sono cambiati tre procuratori, e in Italia quattro ministri della Giustizia) e coinvolge anche Medici senza Frontiere e Save The Children.
Dopo cinque anni, è ancora alle battute iniziali, soprattutto perché molte udienze sono state rinviate per la mancanza di traduttori e vizi nelle notifiche, dato che gli imputati vengono da diversi Paesi europei e i loro avvocati hanno contestato le trascrizioni del tribunale.
L’inchiesta della Procura di Trapani è davvero singolare. Non solo per lo sforzo investigativo enorme, con l’utilizzo di intercettazioni, droni e anche di agenti sotto copertura, ma perché nel faldone delle indagini sono finiti intercettati anche avvocati e giornalisti. Alcune conversazioni con fonti confidenziali, assolutamente irrilevanti ai fini dell’inchiesta, sono state trascritte, insieme a nomi e schede di giornalisti italiani e stranieri. Tanto che l’allora ministra della Giustizia Marta Cartabia, quando esplose il caso, nel 2021, mandò anche gli ispettori, in Procura, per capire come fossero finiti quei nomi e quei dialoghi nelle 30mila pagine delle indagini, e perché si era necessario sorvegliare dei giornalisti.
L’ipotesi dell’accusa è quella di un accordo tra trafficanti e navi umanitarie per la «gestione» dei migranti. In altre parole: le persone in mare non sono state salvate, ma consegnate. In un passaggio degli atti di indagine i volontari vengono equiparati ai trafficanti libici, perché, è scritto «entrambi considerano i migranti come una preziosa merce, e non come naufraghi da salvare». Vengono monitorate 13 operazioni di salvataggio, tra il 2016 ed il 2017. Secondo l’accusa, gli attivisti di Save The Children, Medici Senza Frontiere e Jugend Retten «erano mossi nelle loro condotte criminose da aspetti economici». Qual era l’obiettivo? «La raccolta e conduzione in Italia di un numero sempre maggiore di migranti, per mantenere alta visibilità mediatica e avere più donazioni».
La Procura è convinta di aver dimostrato i contatti «tra coloro che scortavano gli immigrati fino alla Iuventa e i membri dell’equipaggio della nave». Anche se hanno agito solo per ragioni umanitarie e senza fini di lucro, riconosce la Procura, gli operatori si sarebbero avvicinati troppo alle coste della Libia e avrebbero avuto contatti con i trafficanti per delle «consegne pattuite» di migranti. In cambio, ad esempio, gli operatori della Iuventa avrebbero lasciato alla deriva tre imbarcazioni in modo che i trafficanti potessero recuperarle e usarle successivamente in altre traversate.
Il processo è seguito dagli osservatori di Amnesty International. Ampi reportage si trovano su diverse testate europee. Un centro indipendente per il giornalismo investigativo, Forensic Architecture, di Londra, ha addirittura pubblicato una contro inchiesta che smonta le conclusioni della Procura di Trapani sui presunti tre «contatti» filmati tra le navi delle Ong e gli scafisti libici. E un sito in tre lingue (italiano, inglese e tedesco) pubblica un diario del processo con tutte le iniziative di solidarietà in giro per l’Europa.
In Italia, invece, passa quasi con indifferenza. Alle udienze, solo un paio di giornalisti locali, per il resto sono tutti stranieri. Gli imputati rischiano più di venti anni di carcere. Nella penultima udienza, poco prima di Natale 2022, la presidente del Consiglio Giorgia Meloni e il ministro dell’Interno Matteo Piantedosi hanno chiesto di essere ammessi come parte civile, con l’intenzione di sollecitare un risarcimento per i danni «economici e morali» sostenuti dallo Stato italiano. La richiesta è stata respinta.
Intanto la nave continua a essere sequestrata. Ed è ormai ridotta, dopo cinque anni, a un ammasso di rottami. La Ong tedesca ha per questo presentato una denuncia, e adesso il tribunale ha prescritto alla Capitaneria di porto di Trapani di «provvedere all’esecuzione di tutte le opere di manutenzione ordinaria e straordinaria necessarie a ripristinare e a mantenere la situazione della nave esistente al momento del sequestro». Operazione impossibile. La nave, negli anni, è stata anche vandalizzata e saccheggiata di attrezzature e strumenti. Il resto è completamente arrugginito. Dal 2021 non è neanche in un’area sorvegliata del porto, tanto che c’è anche chi l’ha utilizzata come rifugio di fortuna. Dalla Capitaneria di Porto di Trapani, per capire il da farsi, hanno chiesto lumi al ministero delle Infrastrutture e dei Trasporti. I costi sono ingenti. Se c’è da rimettere in sesto la nave, si fa prima a farne una nuova. Dal ministero guidato da Matteo Salvini, non ha ancora risposto nessuno. Sono troppo impegnati a dare la caccia agli scafisti «nel globo terracqueo».