Una settimana fa stavo aspettando che mi facessero una tac. Non lo dico per alimentare l’illusione che sappiate delle cose della mia vita e il meccanismo nevrotico per cui ci si preoccupa della salute delle sconosciute quanto di quella dei propri cari: lo dico per fornirvi il contesto comico.
Il contesto in cui, la prima volta che ti arriva il link e sei nella sala d’attesa d’una clinica e non hai le cuffie in borsa, non vai a guardare le storie di Instagram in cui il marito della Ferragni risponde a non so più quale polemica; la decima, però, capisci che dev’esserci qualcosa se tutti ti scrivono «ma che cos’ha, perché balbetta». La decima volta vai in un corridoio e ti metti a guardarle tra infermiere che passano scuotendo la testa.
Quando sono uscita dalla tac, nel mio telefono c’erano già molteplici ipotesi sulla salute del marito della Ferragni: in un mondo in cui farci i fatti degli altri ci pare normale, farci quelli della famiglia Ferragni ci pare doveroso. I più allarmisti ipotizzavano una metastasi al cervello che gli avesse fatto partire un disturbo neurologico. Frequento gente mediamente razionale, eppure la famiglia Ferragni fa quest’effetto qui: facciamo le diagnosi a distanza. Un po’ ce ne vergogniamo, ma neanche poi troppo.
A quel punto erano già due settimane abbondanti che il marito della Ferragni era scomparso dai social della moglie, e muto sui propri. Lei quel pomeriggio avrebbe postato una foto delle loro due mani unite, ma per il resto era da Sanremo che aveva un Instagram da madre single. Poiché guardiamo gli Instagram degli altri e c’illudiamo perciò di conoscere le loro vite, l’assenza social della coppia ci faceva sentire autorizzati a fare illazioni.
La più ricorrente era: ogni volta che lei sta per lasciarlo, lui si ammala. Che è anche un meccanismo psicologico abbastanza banale, non è che serva proprio una squadra di luminari viennesi per diagnosticarlo.
Mentre il mondo continuava a fare illazioni, cercarlo in angoli di foto di lei, sentirsi Woodward e Bernstein perché aveva visto la coppia insieme per strada o in un bar, ieri sera il marito della Ferragni è ricomparso su Instagram, raccontando una storia che ai più istruiti ha fatto venire in mente i prodromi del suicidio di David Foster Wallace. La storia più temuta da chi ha consuetudine con la psichiatria: lo psicofarmaco sbagliato.
Ha raccontato che dopo il cancro non si è preso cura «della mia salute mentale», che si è affidato solo agli psicofarmaci, solo che lo psicofarmaco che gli hanno prescritto gli dava controindicazioni talmente importanti da aver dovuto smettere senza décalage. Ne sono seguiti gli ovvi sintomi della crisi d’astinenza, che – racconta – gli hanno impedito di fare il suo lavoro, di andare a testimoniare in tribunale, di fare tutto ciò che bisogna essere in sé per fare.
Mentre scrivo quest’articolo non è ancora partita la polemica che mi aspetto sia già in corso quando leggerete. Ah, quindi ritieni che farsi prescrivere degli psicofarmaci non sia prendersi cura della propria salute mentale, diranno i neolinguisti della polemica, aggiungendo poi sempre in neolingua che in questo modo si contribuisce allo stigma. Quel che in italiano si direbbe: vuoi screditare gli psicofarmaci. (Consiglio per ravvivare la polemica: semmai vuole screditare l’abilità professionale dello psicoterapeuta da cui Prime ha mandato la coppia).
In tutto ciò il dettaglio interessante mi pare la moglie. Il marito di Chiara Ferragni dice che lei non ha fatto altro che stargli vicino, e che gli dispiace che si sia presa perciò insulti per settimane. Confesso di non sapere di cosa parli – non si può star dietro a tutto, e gli insultatori della Ferragni li recupererò dopo che avrò letto Musil – ma c’è un elemento molto interessante nel silenzio di questi venti giorni.
Sono settimane che la lettura collettiva dell’assenza della coppia dai social è: lei non l’ha ancora perdonato per il bacio a Sanremo, lei madre frigorifero lui bambino pentito. Non m’interessa cosa sia vero e cosa no, ma mi sembra interessante riflettere sulla possibilità che, mentre noi spettegoliamo sulla loro vita dicendo che lui dorme sul divano e lei gelida lo respinge, lei gli stia invece tenendo delle pezze fredde sulla fronte; e, nel tempo libero dall’accudire il coniuge, non dica una sillaba in propria difesa, non si precipiti a ripristinare la propria reputazione di moglie amorevole, si distacchi da uno spirito del tempo in cui tutti – dirigenti Rai, ministri, io, voi – ci esibiamo ogni giorno nella nostra interpretazione di Quelo, lamentando che tu lo sai a che ora mi sono svegliato io stamattina, la bambina ha vomitato.
In un mondo che ha inventato il mestiere dello spiegatore di come si gestiscono i danni d’immagine, e in cui questi spiegatori fatturano dicendo a milionari fragili che bisogna precisare, raccontare, dare la propria versione dei fatti, non lasciare un vuoto comunicativo mai perché esso vuoto verrà riempito da cattiverie, Chiara Ferragni è la Enrico Cuccia della sua generazione. Una che, per quante fantasie sul suo matrimonio e sul suo carattere e sulle sue giornate legga in giro, non smentisce, non rettifica, non dà pubblicamente mostra d’agitarsi.
Non saprà evitare di mettersi la matita più scura del rossetto, non avrà una gran dizione, sarà pure il segno che non avremo mai più un vero star system, ma nell’epoca in cui ha vinto la linea di Diana Spencer, che sconfisse il motto reale circa il mai scusarsi, mai dare spiegazioni, mai lamentarsi, Chiara Ferragni è l’ultima Elisabetta II che ci è rimasta.