Loro di Mosca L’antioccidentalismo di Salvini e Conte e il ritorno dei gialloverdi

Su sponde opposte, i leader di Lega e Movimento 5 stelle tentano di boicottare l’invio di armi all’Ucraina per recuperare qualche voto a danno di Meloni e Schlein, nella speranza di non crollare nei sondaggi

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Se oggi ci fosse ancora il Conte uno l’Italia non manderebbe le armi all’Ucraina e dunque si collocherebbe contro l’Alleanza atlantica, cioè fuori dal novero dei Paesi civili e democratici. Meno sicuro, ma non impossibile, che ciò avverrebbe anche con il Conte 2: è meno probabile perché lì c’era un Partito democratico che pur con tutti i mal di pancia sostiene l’invio di armi a Kyjiv. 

Comunque sia, in questi giorni l’intesa giallo-verde si sta rinsaldando attorno alla questione principale dell’agenda mondiale grazie alla dichiarata opposizione al sostegno armato all’Ucraina da parte del Movimento 5 stelle e all’evidente insofferenza della Lega nel confermarlo. 

Poi è ovvio che alla fine i leghisti votino le risoluzioni del governo, mica siamo al tempo del Papeete, e però la differenza tra Lega e Fratelli d’Italia sul punto è risultata chiarissima dai discorsi parlamentari dei salviniani che come ha sconsolatamente osservato Claudio Borghi «purtroppo loro hanno molti più voti di noi». 

La guerra di Mosca c’entra relativamente. Il fatto è che su questa questione Giuseppe Conte e Matteo Salvini tentano di fare concorrenza (sleale) alle due leader del momento, Giorgia Meloni ed Elly Schlein, che a stare ai risultati elettorali nel primo caso e ai sondaggi nel secondo gli stanno mangiando i consensi. 

Si tratta di concorrenza sleale – ma qui non servono tante spiegazioni – perché è molto facile fare i pacifisti sulla pelle di un popolo che sopravvive con tutte le sue forze a una aggressione vigliacca e forsennata facendo credere che chi è a fianco della Resistenza sia un guerrafondaio. È la litania di Giuseppe Conte che, scippato delle proposte sociali e totalmente assente su quello dei diritti civili sui quali Schlein domina la scena, prova a presidiare l’area pacifista e a cavalcare le pulsioni antioccidentali se non dichiaratamente filoputiniane cercando per questa via di risalire la china. 

Speculare è la situazione di Salvini, ormai chiaramente escluso dalla direzione reale del governo che è tutta in mano alla presidente del Consiglio e ai suoi uomini – di fatto, siamo davanti a un monocolore di Fratelli d’Italia – e non basta certo la propaganda sul ponte di Messina a farne un protagonista di questa stagione: ecco perché egli ha bisogno di uno spazio vitale come il “pacifismo” che nel cuore della Lega ben si mescola al tradizionale filoputinismo dell’epoca dei Gianluca Savoini e degli incontri nella hall dell’hotel Metropol di Mosca, luogo prediletto per faccendieri di ogni risma. 

Più in generale va notato che di fronte alla guerra di Putin si sta nuovamente disegnando uno spartiacque tra politica e antipolitica, tra ragione e demagogia, tra responsabilità e populismo, per cui da una parte – pur con tutte le contraddizioni – resiste un asse FdI-Pd-Terzo Polo che continua a difendere la lotta di un popolo oppresso e le ragioni dell’Occidente democratico e dall’altra una piccola intesa gialloverde che innaffia il terreno del populismo e del pacifismo più o meno in buonafede, tornando a saldare quell’alleanza che a suo tempo Steve Bannon definiva come «avamposto della rivoluzione sovranista» (quando anche il partitino di Giorgia Meloni, erede del Movimento sociale italiano, ne faceva parte). 

Da allora i processi politici hanno spinto Salvini ancora più a destra e Conte verso una sua “sinistra” modellata sui canoni della demagogia e addirittura del clientelismo, e dunque i gemelli del populismo si sono allontanati, ma oggi c’è da chiedersi se questa oggettiva convergenza sul tema dei temi – la guerra –  non preluda a una contemporanea ribellione di contiani e salviniani nei confronti delle due leadership che contano, quelle di Schlein e Meloni. A occhio e croce, visti i personaggi, è prevedibile un duplice fallimento.

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