Il nuovo Pd di Elly Schlein dunque recupera a sinistra e non toglie un voto al centro né tantomeno a destra. Ieri a Montecitorio già c’era qualche deputato dem che osservava che il pur lusinghiero sondaggio di Swg riporta il Pd al 19 per cento rubando voti a Giuseppe Conte e un po’ a Nicola Fratoianni ma zero a Carlo Calenda e alla destra: con il che siamo sempre lì, in un gioco a somma zero.
L’entusiasmo identitario che si respira attorno alla nuova leader è indubbio ed è per così dire il minimo sindacale che una novità di questa portata poteva portare. Ed è comprensibile che lei si goda questo momento d’oro. Ma «non parla con nessuno», si lamenta qualche dirigente di lungo corso, e invece una delle sette fatiche di un leader di un partito come il Pd è quello di tessere e ritessere rapporti con tutti, evitare che sorgano irrequietezze che già qualcuno fa trapelare. Ci vuole insomma una vocazione maggioritaria applicata al partito ma da questo punto di vista non sarebbero giunti segnali particolari.
Adesso bisognerà capire se la strada di Schlein nasce e finisce nel recinto della sinistra più o meno storica o se s’imporrà come una nuova tappa di quel partito a vocazione maggioritaria che il Pd tenta invano di costruire dal 15 anni a questa parte andandoci vicino due volte: con Walter Veltroni alle politiche del 2008 e con Matteo Renzi alle europee nel 2014.
Lo stesso Veltroni ieri ha detto di sperare che «Elly riesca riportare il Pd alle sue origini di partito di sinistra che si pone l’obiettivo di conquistare la maggioranza degli elettori», ed è una frase cortese che pone appunto la questione se lo schleinismo contenga in sé le potenzialità per, appunto, «conquistare la maggioranza degli elettori», cioè di vincere le elezioni, dunque di guidare, Elly, il Paese.
Troppo presto per dirlo, certo. Ma intanto non si sfugge all’impressione che lei abbia vinto le primarie in quanto più credibile capo dell’opposizione che non come futura candidata per Palazzo Chigi e soprattutto non è affatto chiaro come una visione abbastanza imperniata sui “no” (soprattutto nelle politiche su ambiente e sviluppo) possa parlare alla parte più produttiva e sociologicamente più lontana dalla sinistra-sinistra, una parte che però è decisiva e non solo in termini quantitativi – di numero di voti – ma dal punto di vista delle alleanze sociali e politiche.
È solo un esempio. Che però rimanda alla questione di fondo, cioè all’attitudine minoritaria per quanto di massa della sinistra italiana che infatti da sempre lotta contro sé stessa per superare questo limite.
Già qualche segnale fortemente identitario in questi primissimi giorni si intravede, dall’abbraccio fiorentino a Giuseppe Conte fino al discorso un po’ comiziante di ieri di Peppe Provenzano in aula alla Camera in occasione del dibattito sulla tragedia davanti alla costa calabrese dove più che alzare la voce con un burocratico Piantedosi si sarebbe potuto alzare il tiro verso Matteo Salvini, la cui linea è alla base della indecente prova fornita dallo Stato nella notte di Cutro.
Ci sarà tempo per Elly Schlein per mandare segnali al Paese e non solo al popolo di sinistra e costruire un’iniziativa unitaria che parli un linguaggio di proposta e di governo, ci sarà tempo ma non un tempo infinito perché già le elezioni europee dell’anno prossimo saranno un test fondamentale e poi perché nessuno può giurare sul fatto che questa legislatura duri cinque anni, anzi. Già domenica all’Assemblea nazionale del Pd che la acclamerà e la nominerà ufficialmente segretaria, Elly Schlein deve cominciare a parlare all’Italia, se vuole iniziare bene la sua traversata.