Meno di una settimana fa, l’account Twitter della Silicon Valley Bank (Svb) condivideva un post in cui si diceva «orgogliosa di essere stata inserita per il quinto anno consecutivo nella classifica annuale di Forbes delle migliori banche d’America». Oggi quell’account non esiste più. Insieme, come noto, alla banca con sede a Santa Clara, in California.
Il suo fallimento – dichiarato per insolvenza lo scorso venerdì 10 marzo, il secondo più grande nella storia degli Stati Uniti – ha avuto ripercussioni tali da portare alla chiusura di un altro istituto bancario: il ministero del Tesoro e la Federal Reserve hanno fatto sapere di aver chiuso anche la Signature Bank di New York, a sua volta terzo crack per dimensioni finanziarie nella storia americana.
Gli esperti hanno scongiurato l’ipotesi di un rischio concreto per il sistema bancario mondiale ma l’allarme è scattato comunque. Dopo l’intervento immediato del governo Biden – che ha promesso il rimborso di tutti i depositi fino a duecentocinquantamila dollari –, l’Europa ha assistito ieri a una riapertura drammatica dei mercati, con il maggior calo da dicembre in tutto il continente e Piazza Affari maglia nera in una giornata così difficile.
Alcuni governi hanno manifestato preoccupazione per le ripercussioni sul mercato delle startup tecnologiche (con le quali Svb aveva stretto un robusto sodalizio) e su alcuni fondi pensionistici. Fino alla scorsa settimana pochi europei avevano mai sentito parlare di Silicon Valley Bank, ma l’istituto di credito aveva filiali in Germania, Svezia, Danimarca ed era fortemente attivo sul territorio.
Lo sviluppatore polacco di giochi mobile Huuuge Games, per esempio, ha dichiarato che circa il dieci per cento del suo capitale si trovava presso Svb al momento del fallimento, mentre il più grande fondo pensione svedese (Alecta) ne era il quarto azionista, con partecipazioni per un valore di seicentocinque milioni di dollari.
Ieri il Regno Unito è subito corso ai ripari, con il colosso londinese Hsbc che ha annunciato l’acquisto con effetto immediato della filiale inglese della banca al prezzo simbolico di una sterlina. Secondo il Financial Times gestiva depositi per quasi sette miliardi di sterline, servendo circa un terzo «dell’economia dell’innovazione» dell’intero Paese. Mentre le autorità statunitensi si affrettavano a contenere le conseguenze del crollo, il primo ministro britannico Rishi Sunak, in viaggio verso la California per incontrare Joe Biden, si è affrettato a trovare un’ancora di salvezza per le centinaia di startup che dipendono dalla banca per i finanziamenti. La notizia è stata diffusa dal ministro britannico delle Finanze, Jeremy Hunt, parlando di un accordo privato «favorito» dalla Banca d’Inghilterra.
Nel frattempo, in Germania l’autorità di vigilanza sui mercati ha congelato l’attività della filiale tedesca di Svb, emettendo un divieto sulle dismissioni e sui pagamenti: Berlino ha sottolineato come la filiale non rappresentasse un nodo di importanza sistemica e non minacciasse in alcun modo la stabilità finanziaria del Paese.
Lo stesso concetto è stato espresso dal ministro delle Finanze francese Bruno Le Maire («nessun allarme specifico per la Francia») e, in chiave europea, dal commissario europeo all’Economia Paolo Gentiloni, che ha parlato di «impatto prevedibile» sulle borse: «Non vediamo un rischio specifico di contagio, ovviamente stiamo monitorando la situazione in stretto contatto con la Bce».
Oltreoceano non si assisteva a una simile concitazione dalla crisi del 2008. Ma non è la stessa cosa. Il terremoto che ha investito Silicon Valley Bank si inserisce in un perimetro ben definito e il suo epicentro è da ricercare alcuni anni addietro, all’epoca in cui nella valle californiana del silicio si stringeva un sodalizio di ferro tra gli istituti bancari e le startup attive nel settore tech. Un sodalizio che era compromesso sul nascere dall’ebbrezza generata dai tassi d’interesse a zero, che quando hanno (recentemente) ricominciato a salire hanno prosciugato l’enorme liquidità in cerca di rendimenti venutasi a creare. Ciò ha riguardato anche diverse realtà europee, seppur in maniera minoritaria.
Il Paese più coinvolto fuori dai confini americani resta la Gran Bretagna, che però si è mossa repentinamente per arginare i rischi. Nel frattempo, in alcuni ambienti della finanza europea è iniziato a serpeggiare un sospetto: che lo “strappo” possa non espandersi fino al vecchio continente ma, comunque, presagire una crisi economica statunitense. Lo ha detto chiaramente George Saravelos, manager di Deutsche Bank: «Stiamo valutando i tagli della Fed piuttosto che i rialzi, la curva dei rendimenti sta diventando ripida bruscamente. Tutto ciò è coerente con un’imminente recessione negli Stati Uniti».