Due anni fa ci lasciava il grande pittore e scultore Turi Simeti, l’artista degli ovali. Nato ad Alcamo nel 1929, nutriva una profonda ammirazione per il maestro Alberto Burri, di cui apprezzava tra le tante cose l’aver portato una inedita profondità sulla tela. All’inizio degli anni Sessanta, sperimentando così anch’egli le “combustioni controllate” di Burri, scoprì che la forma ellittica era il modulo che stava ricercando per uscire dalla tela e rappresentare l’essenza della realtà. Attraverso l’ovale Simeti portò avanti il proprio intento di dare vita a un’arte veramente aperta allo spazio, fondendo la pittura con la scultura. L’ovale diventò da subito strumento e contenuto di tutta la sua ricerca artistica.
Cosa c’era di così ipnotico in questa forma? Difficile comprenderlo se non consideriamo l’altro elemento dell’alchimia di Simeti, la monocromia: le sue tele-scultura vedevano come protagonista un solo colore alla volta. Il monocromo era impiegato dall’artista per annullare ogni riferimento riconoscitivo e “oggettivare” l’opera d’arte, privandola dell’Io creativo dell’artista: i lavori di Simeti a prima vista possono essere intesi – nella loro totale pulizia delle forme – persino come manufatti industriali o come se si fossero generati autonomamente.
In questo colore assoluto, però riaffiora qualcosa. L’estroflessione – il venire fuori dalla tela – delle forme ovali fa sì che le opere non siano mai in realtà di un colore solo. Le ombre, i grigi e i neri, sono i veri protagonisti quindi delle tele di Simeti, morto a Milano il 16 marzo 2021. È quindi la luce combinata all’ovale il vero strumento per staccarsi pienamente dall’uniformità della tela: senza la luce le opere di Simeti sono mute e perdono quella dimensione di dinamismo che tanto le ha rese celebri.
Muovendosi di fronte all’opera lo spettatore non solo assiste all’epifania della forma sula tela ma ne diventa inconsapevole motore e artefice. I quadri-scultura di Simeti hanno così un qualcosa di tattile, quasi sensuale, ma allo stesso tempo anche di claustrofobico, come se la tela fosse un’epidermide che contiene e imprigiona sotto di sé qualcosa di vivo in continuo movimento.
Negli anni l’artista da un lato comincia a moltiplicare le ellissi, dall’altro sperimenta altri materiali come la carta e la pietra. La sua scultura forse più iconica rimane “Impronta” (1979), realizzata a Gibellina. In questa monumentale opera un ovale appare sulla superficie di un blocco di marmo bianco, a rappresentare la visione stessa del mondo secondo Simeti: «Modificare con un intervento minimo una superficie in modo che perda ogni misura di neutralità, e creare una presenza evidenziata dal rapporto tela-luce. il silenzio dello spazio proposto è un’ipotesi di perfezione proiettata al di là dell’opera».