Le operazioni militari hanno sempre una dimensione politica. Attaccare o difendere una posizione, assumersi rischi calcolati lanciando un’offensiva o rimanere cauti autorizzando una ritirata strategica sono decisioni che devono sempre essere coerenti con gli obiettivi politici di una campagna militare. Questa unità di intenti sarà cruciale anche per la controffensiva che Kyjiv sta preparando per liberare parti del Paese. Sfortunatamente, i suoi effetti dipenderanno in larga parte dall’attitudine russa.
Mezzi militari, vittorie politiche
Gli ucraini si sono finora dimostrati più che capaci a mantenere questa coerenza fra strumento politico e militare. Dopo oltre un anno di guerra, il controllo civile sulle forze armate è stato mantenuto e ne è anzi uscito rafforzato. L’arresto a febbraio di alcuni comandanti dell’esercito per corruzione dimostra che lo stato di emergenza non ha portato a uno strapotere dei militari. In più, le azioni ucraine sono sempre accompagnate da uno sforzo di comunicazione strategica, e le sensibilità diplomatiche degli alleati di Kyjiv pongono la cornice all’interno della quale si muovono le forze armate.
Allo stesso tempo, le vittorie sul campo sono usate attivamente come strumento nei consessi internazionali. I successi del 2022 a Kharkiv e Kherson sono stati l’argomentazione più persuasiva per convincere i Paesi europei e gli Stati Uniti che l’Ucraina è in grado di riconquistare il terreno perduto se dotata dei sistemi d’arma necessari per organizzare controffensive meccanizzate. Sono state vittorie militari, ma il loro valore politico è stato ben più importante: hanno cementato l’alleanza fra Ucraina, Nato e Unione europea.
Ciò non vuol dire che non siano stati commessi errori, come è inevitabile che sia quando c’è una forte commistione fra obiettivi politici e militari. Ad esempio, è evidente che la “città-fortezza” di Bakhmut continui a essere difesa strenaumente, anche e soprattutto perché ormai divenuta un simbolo della resistenza ucraina. Ad oggi non è chiaro se gli insensati assalti dei russi contro la città, condotti spesso con truppe di scarsissima qualità, siano più dannosi per gli attaccanti o i difensori, le cui risorse umane e materiali sono comunque limitate. Gli analisti ucraini e occidentali discutono molto animatamente sull’opportunità militare di tenere la città, ma probabilmente solo dopo la guerra sapremo se le perdite inflitte ai russi a Bakhmut (e la distrazione strategica provocata al Cremlino) valgano il costo pagato.
Il valore politico della controffensiva
Per questo, la controffensiva che Kyjiv potrà lanciare a partire da maggio avrà soprattutto un valore politico, sarà una prova del nove per la continuazione del conflitto: dimostrerà quanto e come l’Ucraina potrà continuare a combattere con successo, e porrà le basi per gli sviluppi diplomatici del 2023. È improprio fare previsioni dalla comodità della propria scrivania, ma possiamo qui delineare potenziali obiettivi ai quali gli ucraini potrebbe ambire.
Alcuni sono di natura economica e militare, come indurre una ritirata russa dalla centrale nucleare di Zaporizhzhia. Il controllo della centrale più grande d’Europa permetterebbe a Kyjiv di entrare con più serenità nell’inverno 2023/24 e rimuoverebbe il rischio di un disastro nucleare. Se la direttiva d’attacco fosse verso il mare d’Azov, gli ucraini potrebbero altresì provare a tagliare il ponte terrestre fra Russia e Crimea, scardinando così le difese russe nella zona. Ciò renderebbe il controllo russo della penisola più precario e darebbe come minimo una leva negoziale a Kyiv. Dato che Mosca si aspetta un’offensiva in questa regione, gli ucraini potrebbero anche provare a liberare parte del Donbas e rendere ancora meno credibile la prospettiva di un’annessione alla Russia.
Ognuna di queste prospettive è legittima, soprattutto perché libererebbe territori attualmente sottoposti a una politica di occupazione verosimilmente tanto brutale quanto lo è stata a Kherson e a Bucha o Irpin. Allo stesso tempo, l’offensiva militare sarebbe accompagnata da un messaggio diplomatico importante: l’Ucraina è capace di impiegare con efficacia le brigate che, secondo i leak del Pentagono, saranno principalmente equipaggiate con materiale occidentale avanzato. Ciò segnalerebbe sia alle capitali europee che a Mosca che Kyjiv è in grado di sostenere a lungo il conflitto e che la Russia ha poco da guadagnare dal proprio attuale approccio, che punta a uno sfilacciamento della coalizione pro-ucraina se la guerra si dovesse protrarre.
Fare i conti senza il Cremlino e l’opinione pubblica ucraina
Al netto di ciò, segnalare la capacità di combattere una guerra lunga non vuol dire necessariamente doverlo fare. Ogni Paese ha diverse motivazioni: per gli Stati Uniti, una guerra prolungata rischierebbe di lasciare scoperto il fronte Indo-Pacifico; per l’Unione europea, il rischio di destabilizzazione sarebbe imprevedibile. In molte capitali, e indubbiamente anche a Kyjiv, in molti credono (e sperano) che la linea del fronte dell’autunno 2023 diventerà quella di un potenziale cessate il fuoco. Nella migliore delle ipotesi, una controffensiva riuscita porrebbe quindi le basi per un possibile negoziato.
In questo scenario, un ritorno ai tavoli negoziali a Istanbul sarebbe possibile grazie a un’Ucraina rafforzata e una Russia consapevole di non poter raggiungere i propri obiettivi con lo strumento militare. Il vero ostacolo nel caso di un’offensiva particolarmente di successo sarebbe potenzialmente l’opinione pubblica ucraina, che potrebbe essere poco incline a tollerare concessioni alla Russia nel caso una vittoria militare sembrasse più verosimile.
Queste congetture sono certo confortanti, ma danno per scontato un grado di cooperazione da parte russa che sembra per lo meno irrealistico. Anche in diplomazia, it takes two to tango.
A differenza di Kyjiv, Mosca ha fatto inizialmente molta fatica ad accompagnare l’azione militare a quella politica. Dissoltasi la narrazione della rapida operazione speciale, che avrebbe posto il mondo di fronte al fatto compiuto di un’annessione dell’Ucraina, Mosca ha faticato a ritrovare il proprio equilibrio strategico. Questa difficoltà è dovuta anche a una progressiva regressione della politica estera russa. Con l’aumentare delle tensioni internazionali, la diplomazia e gli strumenti di soft power sono diventati sempre più un corollario dell’azione militare (un fatto ironico se si considera la relativa debolezza politica delle forze armate all’interno del regime).
Una guerra totalizzante
La conseguenza di questa deriva è stata la trasformazione del conflitto in una guerra che, pur non essendo certamente “totale” per il Paese, sicuramente è “totalizzante” per il regime russo. Le istituzioni russe tendono sempre più ad anteporre gli obiettivi bellici in Ucraina al resto dei propri compiti, sperando di trarne legittimità politica. Per il regime, lo scopo militare ha preso sopravvento su quello politico. In questo momento, il Cremlino ha completamente invertito fini e mezzi; la conquista di una Bakhmut, Kramatorsk o Sloviansk sembrano essere diventati obiettivi strategici da perseguire con la de-dollarizzazione o la formazione dell’asse russo-cinese.
Questa atrofia rende l’offensiva che verrà particolarmente cruciale, perché anche una vittoria militare ucraina, se dovesse materializzarsi, sarà solo parte dell’equazione. È matematico che l’offensiva avrà importanti ripercussioni politiche a prescindere dal suo esito, sia in Ucraina che nella comunità euro-atlantica, sia in Russia. Ma è difficile prevedere gli effetti che avrà su un regime che ormai guarda al mondo attraverso il filtro della guerra in Ucraina, come dimostrato dalla nuova Strategia di politica estera.