Due anni fa, proprio di questi tempi, stavo chiudendo la prima stesura di “Gastronazionalismo” che insieme ad Anna Claudia Cecconi e ad Andrea Bezzecchi avevamo immaginato come un libro per discutere in termini generali e sociologici di identità e nazione, in termini giuridici di funzioni più o meno efficacemente svolte dalle Dop e dalle Igp e, a livello di esempi, come una serie di casi nei quali, a nostro avviso, l’idea di origine così come l’idea di tradizione erano fortemente messe in discussione nei fatti.
Nell’ambito di quel lavoro abbiamo dedicato una particolare attenzione al fatto che molto spesso tra i modi sbagliati di utilizzare i riconoscimenti internazionali che vanno a premiare delle tradizioni gastronomiche (tra i quali Dop, Igp, Stg, ma anche biologico e patrimonio dell’umanità Unesco) ce ne sia uno che in Italia è particolarmente fertile.
Si tratta della tentazione di proporre per il riconoscimento qualcosa, una tradizione o un prodotto non perché speciale e qualitativamente rimarchevole rispetto ad altri ma semplicemente perché si tratta di qualcosa di nostro e siccome gli altri riteniamo abbiano già avuto un riconoscimento di tal fatta, allora, per non essere da meno, ecco che tale riconoscimento deve spettare pure a noi. Insomma, la ragione per riconoscere la specialità diventa il particolarismo, l’orgoglio di campanile, che viceversa, se andiamo a leggere gli atti costitutivi di questi schemi di qualità o del patrimonio in materiale dell’Unesco non dovrebbe certamente trovare grande apertura.
Il pensiero mi è tornato prepotentemente a questa critica quando giovedì scorso è stato annunciato il dossier per la candidatura Unesco della cucina italiana. Come mi ha cortesemente spiegato il presidente del comitato scientifico per questa candidatura, ovvero l’autorevole e amico professor Massimo Montanari, il dossier è stato presentato ma non potrà essere consultato prima della fine dei lavori da parte dell’Unesco: la finalità di questa regola imposta dalla istituzione delle Nazioni Unite è evidentemente quella di evitare una pressione dell’opinione pubblica su chi debba svolgere l’importante scrutinio della candidatura. Peccato allora che con uno stile ormai consueto per questo governo si sia proceduto a un annuncio a Reti pressoché unificate seguito da una ridda di entusiastiche voci a commento che, in fin dei conti, hanno inverato proprio quella pressione sociale che si voleva scongiurare per garantire condizioni di lavoro serene ai giurati e, d’altra parte, non hanno nemmeno potuto basarsi sui documenti originali. Ma tant’è, inutile piangere sul latte versato.
Con la notizia della candidatura sono tornato nella mia classe magistrale a fare lezione e ho chiesto così tra il lusco e il brusco ai miei ragazzi se fossero in grado di menzionare un carattere, uno solo, che a loro giudizio rappresentasse la differenza specifica propria di tutte le cucine esistenti nel Belpaese per connotare quella che viene chiamata cucina italiana rispetto a qualunque altra cucina del mondo.
Nessuno in una classe di trenta ragazzi molto interessati al mondo del cibo, ovviamente, ha osato abbozzare una risposta e in effetti questo appare del tutto coerente con le dichiarazioni rilasciate da parte dell’estensore del dossier ovvero il professor Petrillo, esperto di lunga data nella confezione di candidature all’Unesco, siano esse fisiche oppure, come in questo caso, al patrimonio immateriale.
Il professore infatti ha ribadito nelle proprie interviste a caldo che la cucina italiana non è una pratica culinaria come viceversa l’intitolazione della candidatura lascerebbe pensare, ma è piuttosto il rapporto degli italiani con il cibo. A titolo esemplificativo, certo, il professore ricorda il mettersi a tavola tutti assieme, il preparare il cibo per i propri cari, i discorsi con i produttori e i rivenditori locali di derrate, l’organizzazione dei futuri pranzi che inizia spesso davanti al desco.
Tutte cose assolutamente vere ma anche cose che agli occhi di chi sia abituato a considerare la candidatura una sanzione di specialità non sembravano connotare in maniera esattamente univoca il rapporto degli italiani col cibo, potendosi intravedere analoghi caratteri perlomeno in diverse altre cucine di territori intorno al Mediterraneo e molto verosimilmente anche ben lontano da esso.
Viene quindi il dubbio che questa candidatura evidentemente fortissimamente voluta a priori, dovendosi strutturare intorno a un dossier che conciliasse l’ambizione nazionale o nazionalistica, tanto cara all’attuale governo, abbia dovuto via via eliminare dal novero delle possibili specificità, anche misurabili e in effetti misurate da ricerche come Italian Taste, gli elementi concreti capaci di dare una definizione alla cucina italiana intesa come pratiche alimentari.
La dieta mediterranea? Quella no, perché verdure crude, olio, pasta e pane non hanno certo mai potuto costituire l’ossatura della dieta padana e men che meno alpina. La pasta di grano duro, ubiquamente considerate italiana, no, perché certamente al nord è più forte la tradizione delle paste fresche all’uovo, e così il pomodoro no, perché molte cucine regionali hanno impianti che non riconoscono alla preziosa solanacea colombiana la propria componente vegetale; l’alta cucina no perché la ristorazione italiana è una ristorazione di territorio, ma naturalmente ristorazione di territorio no perché non c’è certamente unità di modelli comunicativi e ristorativi nemmeno lungo l’asta del Po, figuriamoci tra il Piemonte e la Puglia.
Insomma, l’impressione che ho ricavato dalla lettura degli excerpta apparsi su diverse testate mi ha confortato nel ritenere che alla fine si sia dovuto scegliere di puntare su caratteristiche tanto generali per poter inviare la protezione di una mitologica cucina nazionale perché forse l’unica cosa che l’Italia non ha mai avuto – e vivaddio questo rappresenta una sua straordinaria fortuna – è proprio una cucina nazionale.
A questa constatazione neppure amara ma anzi piuttosto lieve si è aggiunto subito un corollario: vale davvero la pena di promuovere il riconoscimento di una cucina nazionale senza specificità quando molto probabilmente abbiamo almeno alcune decine di tradizioni alimentari, di sistemi gastronomici, di entità culturali integrate con gli aspetti nutrizionali che nel corso del tempo possiamo offrire come patrimonio condiviso all’Unesco, senza doverne snaturare i caratteri per poter allargare a dismisura la copertura dell’aggettivo che vogliamo apporvi?
E mi sono anche consolato pensando che forse se proprio si voleva individuare un carattere nazionale da proporre all’Unesco come significativamente tale e quindi identitario, si sarebbe magari potuto parlare della cucina del recupero che davvero pervade l’Italia, paese lungamente affamato e solo di recente divenuto benestante, tanto da avere costruito la fortuna di molti dei suoi piatti più celebri proprio sulla velocità di preparazione e consumo, l’economicità di produzione, la fantasia capace di supplire a una ingredientistica magari non proprio estremamente appetitosa e infine il senso del limite che oggi ci sembra di dover cercare nella filosofia orientale ma che molte cuoche, rezdore e cuciniere a ogni latitudine, pur parlando lingue regionali e dialetti non intercomprensibili, hanno scolpito in generazioni di pratiche consolidatesi a formare davvero quella che avrebbe potuto essere, anche se magari non fa troppo fine concederle il proscenio, l’autentica, imitanda cucina italiana: quella dell’avanzo, del recupero dell’autoproduzione e in definitiva della giusta misura.
È proprio quest’ultima osservazione me ne provoca una immediatamente conseguente che voglio condividere per concludere. Siamo sicuri che per un Paese con così tante e variegate tradizioni culinarie e alimentari sia un buon affare eventualmente ottenere la protezione Unesco per questa generica cucina italiana? Non corriamo il rischio che in futuro, quando maturassero le condizioni e le sensibilità per proporre magari la tradizione delle paste all’uovo ripiene, ad esempio, che senz’altro legano decine di province del Nord Italia con nomi, fogge, farce e tradizioni di consumo, legate dalla straordinaria manualità di chi da generazioni impasta, riempie, piega e chiude, ci venga risposto che abbiamo già ottenuto di iscrivere al patrimonio la generica cucina italiana e quindi le sue declinazioni, per quanto imponenti e attestate riccamente, non possono ottenere uno specifico ulteriore segno di riconoscimento?
Insomma, forse è giusto chiedersi se accanto alla opportunità ideale di una candidatura dai contorni che appaiono poco definiti, non valga la pena di porsi una questione di opportunità non meno stringente.
Michele A. Fino
Professore Associato di Fondamenti del Diritto Europeo
Delegato del Rettore per le attività di terza missione
Responsabile Scientifico dell’Unità di Ricerca UNISG – PRIN 2020 “Dell’Origine. Identità, autenticità e contraddizioni del cibo”
Membro del Comitato Scientifico di Vite&Vino (ed. Informatore Agrario)
Membro del Comitato di Gestione del Progetto AGER
Membro del Comitato Scientifico di Agroinnova