Missini che tornanoIl ricordo dei fratelli Mattei è l’ennesima occasione mancata di una memoria comune

Il cinquantesimo anniversario della strage di Primavalle poteva essere il pretesto per fare un discorso nuovo e più avanzato, come ha fatto Verini del Pd, ma è stato invece solo l’ennesimo momento di risentimento e di rivalsa della destra che mostra la voglia di regolare i conti mezzo secolo dopo

Foto Roberto Monaldo / LaPresse

Purtroppo il cinquantesimo anniversario della morte dei fratelli Mattei, bruciati vivi il 16 aprile 1973 nella loro casa di Primavalle per mano di tre proto-terroristi di Potere Operaio, è stata un’occasione mancata. Le celebrazioni sembravano manifestazioni dei militanti del Movimento sociale italiano, il partito neofascista cui apparteneva il più grande dei fratelli Mattei (l’altro era un bambino), sciolto ormai 30 anni fa quando Gianfranco Fini dette vita ad Alleanza Nazionale.

È doveroso notare che a parte il senatore dem Walter Verini, che ha partecipato alla cerimonia in Campidoglio, e all’assessore alla cultura del Comune di Roma Miguel Gotor, che si è recato alla cerimonia a Primavalle con la fascia tricolore, la sinistra in tutte le sue componenti ha brillato per la sua assenza. E non ci risulta che gli ex terzopolisti, evidentemente troppo impegnati a elaborare il loro “lutto”, abbiano dedicato qualche riflessione su quei fatti.

Detto questo, è stata la giornata del Msi. Una giornata che, esaltando un antico riflesso militante, ha teso a dividere. Il ministro della Cultura Gennaro Sangiuliano ha parlato della «violenza comunista», giocando come cinquant’anni fa su un termine che associa Potere Operaio e Umberto Terracini, presidente di quella Costituente ove sedeva il suo gran riferimento culturale Benedetto Croce: lui lo sa bene ma l’essere un ministro della Repubblica non è dunque per lui uno scrupolo per vietarsi di fare della propaganda pure piuttosto polverosa.

Abbiamo visto dichiarazioni dell’immancabile Maurizio Gasparri, quelle ardite di Fabio Rampelli («Quel giorno ho giurato che avremmo conquistato la vittoria»), abbiamo visto un tweet di altri tempi di Francesco Storace («Onore a Stefano e Virgilio»). Missini che tornano, e in fondo ci sta. Questi sono fatti così.

Il problema è un altro. E si chiama Giorgia Meloni, la presidente del Consiglio, in questa fase la persona politicamente più importante e seguita del Paese. Ebbene, Meloni poteva fare meglio. Il suo comunicato, ecco, lo avrebbe potuto fare un Gasparri qualunque. Il problema non è quello che c’è scritto. Il problema è quello che non c’è scritto. Perché è chiaro che bisogna far sì che «non ci siano più nemici da abbattere o da distruggere, ma soltanto avversari, con i quali confrontarsi civilmente e nel riconoscimento reciproco».

E questo c’è scritto nel comunicato dalla premier. Quello che non c’è però è la totale rimozione del fatto che la ricostruzione di una memoria unitaria o condivisa che dir si voglia è possibile grazie al terreno comune della democrazia e che questo terreno comune, questa koiné democratica, l’Italia la deve alla sua Costituzione edificata sul valore dell’antifascismo. E che pertanto – se dicesse questo Meloni sarebbe davvero una leader nazionale nel senso pieno del termine – il 25 aprile sarebbe l’occasione perfetta non per una «pacificazione» che sa tanto di «assoluzione» dei misfatti del Ventennio e dei suoi seguaci, ma per una grande operazione di verità e di «pulizia della memoria» dalle incrostazioni dei decenni.

Il cinquantesimo anniversario della orrenda morte dei fratelli Mattei dunque poteva essere l’occasione per fare un discorso nuovo e più avanzato, ed è stato invece solo l’ennesimo momento di risentimento e rivalsa di quella parte politica che mostra la voglia di regolare i conti – mezzo secolo dopo – più che recuperare il valore morale della memoria.

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