Gli spettri di LefortovoLa prigione dove hanno rinchiuso il reporter del Wsj dice molto della storia della Russia

Gershkovich si trova nello stesso carcere dove era finito l’ultimo giornalista americano arrestato prima di lui, nel 1986. Già epicentro delle purghe staliniane, la struttura è progettata per esasperare l’isolamento

La prigione di Lefortovo, a Mosca (A.Savin, WikiCommons)

Dalle finestre della prigione di Lefortovo si vede solo il cielo di Mosca. Sono molto in alto, così i detenuti non possono guardare la città né interagire con i vicini. Serve ad acuire l’isolamento. Il carcere risale all’epoca degli zar. Aperto nel 1881, prende il nome da un aristocratico francese, François Le Fort, che fu stretto consigliere di Pietro il Grande. È l’imperatore a cui Vladimir Putin si è accostato, lo scorso giugno, per i trecentocinquant’anni della sua nascita. È rinchiuso lì Evan Gershkovich, il giornalista del Wall Street Journal accusato pretestuosamente di spionaggio.

Lefortovo dice molto della storia russa: dapprima galera militare, al tempo delle purghe di Stalin, l’Nkvd antenato del Kgb ci tortura (e giustizia) i «nemici del popolo». Fuori l’Unione sovietica crolla, dentro le sue celle no. Sotto gli eredi della polizia politica, i servizi segreti dell’Fsb, è uno di quei luoghi dove l’oscurantismo non è mai finito. I prigionieri vengono spaventati con racconti sugli spettri che lo infestano, tra loro Lavrentiy Beria, il cerimoniere delle epurazioni totalitarie. Con Putin, quei fantasmi hanno varcato le inferriate e si sono ripresi lo Stato.

L’ultima volta che il Cremlino ha arrestato un corrispondente americano era il 1986, ultimi fuochi della Guerra fredda. Nicholas Daniloff lavorava per U.S. News & World Report, ha trascorso venti giorni a Lefortovo prima di venire liberato in uno scambio con Gennadi Zakharov, impiegato della missione dell’Urss alle Nazioni unite fermato a New York perché ritenuto una spia. Sul Wall Street Journal (Wsj) Daniloff ha ricordato che la prigione veniva scelta da Mosca per i casi esemplari. Come il suo, come il trentunenne Gershkovich.

Il suo collega, e amico, Joshua Yaffa ha descritto sul New Yorker l’erosione del tacito patto per cui ai cronisti internazionali, che parlano al pubblico straniero, veniva lasciata una certa libertà mentre la censura strangolava la società. «Il Paese si spostava in una direzione inequivocabilmente repressiva, passando da un’autocrazia che fingeva, anche se debolmente, di essere una democrazia a uno Stato che non si preoccupa di nascondere gli artigli. La Russia è diventata sempre di più una scatola nera». Per questo è imprescindibile il lavoro sul campo di giornalisti come Gershkovich. Per le stesse ragioni, è temuto dal regime.

Il reporter del Wsj Gershkovich viene scortato fuori dal tribunale di Mosca
Il reporter del Wsj Gershkovich viene scortato fuori dal tribunale (Alexander Zemlianichenko/AP)

È la prerogativa – politica – di chi viene dirottato a Lefortovo. In età sovietica, quel nome esercita una minaccia per i detenuti di altre strutture. «Se non fate i bravi, vi portiamo là». Fino alla Rivoluzione d’ottobre, è uno dei quattro carceri militari (gli altri erano a San Pietroburgo, Varsavia e Riga) dove scontano le pene, di solito brevi, i ranghi dell’esercito. Per un po’ i bolscevichi cercano di spacciarlo come un centro avanzato, dopo il 1936 scompare dai documenti ufficiali. Diventa uno degli epicentri del terrore staliniano.

Vengono interrogati dissidenti presunti e reali, commissari del popolo e ufficiali caduti in disgrazia. «Interrogati» include pestaggi e tortura, molto spesso è l’antefatto dell’uccisione, quando non coincide con essa. Fanno questa fine pure gli altri quadri, nonché fondatori, della Čeka: Gleb Bokii, Jēkabs Peterss e Józef Unszlicht. Sono in pochi, in quegli anni, a sopravvivere a Lefortovo. Le condanne a morte sono eseguite nei sotterranei, con il rumore meccanico dei motori di trattori per coprire gli spari, ha denunciato Evgenija Ginzburg nel suo memoriale del 1967.

L’autore di “Arcipelago Gulag”, Aleksandr Solženicyn, ricorderà una cella nera, illuminata giorno e notte da una lampadina da venticinque watt. Chi si lamenta riceve un «calcio punitivo». Un altro dissidente, Anatoly Sharansky, non scorderà questo avvertimento da parte di uno dei suoi carcerieri: «Vuoi giocare all’eroe? Va bene, fallo. Ma ricordati che non lasciamo uscire vivi gli eroi da Lefortovo!», come ha riportato il Washington Post. Era il 1977.

Molte prigioni russe sono simili a com’erano negli anni Quaranta o Cinquanta. «Il sistema non è mai stato riformato davvero. Non viene compreso che si tratta di monumenti del passato che dovrebbero essere chiusi», ha detto a Time Anne Applebaum. Nel 1994, fase di caos amministrativo, la prigione di Mosca passa al ministero dell’Interno. Dura poco. Due anni dopo, un decreto presidenziale restituisce all’Fsb il plesso insieme ai suoi poteri inquisitori. Nel 2005 è assegnato alla giurisdizione militare, ma di fatto resta controllato dai Servizi.

La sede dell’Fsb a Mosca, a palazzo della Lubyanka
La sede dell’Fsb a Mosca, a palazzo della Lubyanka (AP Photo)

Il dipartimento investigativo dell’Fsb ha sede in un edificio adiacente, per facilitare il percorso degli agenti. Il loro quartier generale, nel palazzo della Lubyanka, è a una fermata di metro. Un’analisi del Wsj traccia la pianta di Lefortovo e le sue condizioni attuali. Ospita chi è accusato di tradimento, spionaggio, corruzione; non di reati qualunque. Ogni interrogatorio, racconta il quotidiano, comincia con il clangore del metallo. I secondini sbattono le chiavi, è il segnale che gli altri detenuti devono girare alla larga.

Le celle sono di 2,7 metri per tre e mezzo, circa. Le finestre, semitrasparenti, sono collocate sopra al livello degli occhi, così i reclusi possono vedere solo il cielo della capitale. Una delle poche aggiunte è stata una cappella ortodossa, con lo stesso accorgimento e cabine per impedire loro di incontrarsi. All’interno, un’illuminazione elettrica già abbacinante di giorno sale d’intensità alla notte. Non si spegne mai. Il Wsj ha scritto di una struttura «ingegnerizzata per evitare che i detenuti si incrocino, un isolamento che rende Lefortovo difficile da sopportare».

Alle persone è consentito solo un bagno alla settimana. Non possono ricevere chiamate né visite (se non quelle degli avvocati) e la corrispondenza viene consegnata in ritardo. «Sei completamente solo. Non c’è un rumore, nulla… Ti fa diventare matto», ha spiegato il giornalista Andrei Soldatov, interrogato più volte nella struttura, sempre al Wall Street Journal. Gershkovich, che i suoi legali hanno trovato «in buona salute», probabilmente è sottoposto a quarantena. Dopo il suo arresto a Ekaterinburg, un tribunale di Mosca ha disposto il fermo in attesa dell’udienza.

È in calendario per il 18 aprile, sarà a porte chiuse. I pubblici ministeri non hanno condiviso il materiale del caso con la difesa di Gershkovich. Il presidente americano Joe Biden ha già chiesto a Putin di lasciarlo andare. Sul New Yorker Yaffa ha fatto notare un particolare: alle domande su un arresto politico, di solito il portavoce del Cremlino Dmitrij Peskov glissa, bolla l’accaduto come una questione da legulei. Sul reporter del Wsj, invece, è stato tranciante: «Non parliamo di sospetti, l’abbiamo colto in flagrante».

Dal 1996 la Cia non può, per legge, arruolare giornalisti. Fare il corrispondente in Russia, poi, è un mestiere sufficientemente pericoloso. Perché un cronista dovrebbe aggiungere alla sua esistenza già resa precaria dalla distopia putiniana un ulteriore fattore di rischio? Probabilmente Gershkovich dovrà attendere il prossimo baratto di prigionieri, ma in questo momento, da quanto si sa, gli Stati Uniti non hanno in custodia agenti russi. La plusvalenza sulla cestista Brittney Griner, scambiata con il trafficante d’armi Viktor Bout, ha segnato un precedente pericoloso per l’ingordigia del regime dell’ex funzionario del Kgb.

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