Chissà se per l’occasione Ursula von der Leyen ed Emmanuel Macron hanno aperto un gruppo su Splitwise. La presidente della Commissione europea e il capo dell’Eliseo in questi giorni condividono il viaggio in Cina, ma non l’agenda. Hanno obiettivi differenti, posture diverse. Il gruppo su una app per dividere le spese, invece, non ce l’hanno (o, se c’è, non è di dominio pubblico).
La presenza del vertice dell’esecutivo comunitario rafforza il “mandato” autoassegnatosi da Macron, che vorrebbe riuscire con Xi Jinping dove ha fallito, nonostante ore di telefonate, con Vladimir Putin più di un anno fa: farlo ragionare. Ci ha provato il primo ministro spagnolo Pedro Sánchez, non più tardi della settimana scorsa. Ancorché necessaria, per cercare di scardinare l’alleanza «senza limiti» con Mosca, la processione di leader europei a Pechino, peraltro intrecciata a interessi economici nazionali, deve custodire un equilibrio: non cedere più di quanto ottenga dalla controparte.
«Chi parla per l’Europa?», si chiede legittimamente la rassegna sulle notizie dal mondo dell’Economist. Lo scorso autunno, quando a imbarcarsi per l’Asia era il cancelliere tedesco Olaf Scholz, il presidente francese aveva tentato (invano) di unirsi alla missione. La turbolenza sull’asse franco-tedesco è sembrata superata a inizio febbraio, quando Parigi e Londra hanno inviato negli Stati Uniti i ministri Robert Habeck e Bruno Le Maire a fare lobbying per conto dei rispettivi governi (e aziende) sull’Inflation Reduction Act, di cui è arrivata infine la risposta dell’Unione.
Stavolta Macron è riuscito a organizzare una visita congiunta. Lunedì ha visto a pranzo von der Leyen, proprio per limare i dettagli e, chissà, il tenore dei discorsi. L’incontro più importante della trasferta sarà oggi, un trilaterale con Xi. Da parte europea, il pressing per l’Ucraina sarà inevitabile, specie dopo che la Repubblica popolare ha avanzato un «piano di pace» che in realtà non lo è, esprime piuttosto una posizione, caratterizzata da una vaghezza in chiaroscuro. Non offre garanzie sul presupposto della Commissione, ribadito in un tweet, e cioè «la sovranità e l’integrità territoriale» di Kyjiv.
In particolare, la proposta cinese per fermare la guerra «non specifica mai se si tratta di riconsegnare all’Ucraina i suoi territori oppure se li considera già russi», ha scritto Giulia Pompili in un’esaustiva analisi sul Foglio. È un’ambiguità voluta, e interessata. Serve a non scontentare il Cremlino. Ci si può intravedere un precedente pericoloso: Pechino considera roba sua Taiwan e tutto ciò che ricade dentro la «linea dei nove punti» nel Mar cinese meridionale. Nelle stesse ore del trilaterale, la presidente taiwanese Tsai Ing-wen incontrerà in California lo speaker della Camera, il repubblicano Kevin McCarthy.
È una «congiunzione geopolitica curiosa», ha notato il Washington Post. Al tempo stesso, Macron e von der Leyen arrivano con credenziali diverse. A voler forzare il copione, potrebbero interpretare quello che nei film di genere viene chiamato «poliziotto buono-poliziotto cattivo». Se vi sembra un’immagine azzardata, ci ha già titolato la Bbc. Dall’Eliseo hanno fatto filtrare possibili «punti di convergenza» sul piano cinese. L’inquilino dell’Eliseo, in quanto tale, è sensibile ai fantasmi di de Gaulle, quell’inclinazione verso l’autonomia dagli Stati Uniti.
Von der Leyen ha una fama da atlantista di ferro. Per quanto fossero fantapolitica, le voci che la consideravano una possibile candidata alla successione al norvegese Jens Stoltenberg alla guida della Nato dicono molto. Pochi giorni fa, ha messo agli atti un discorso in cui ha ammonito sui reali obiettivi del Partito comunista cinese, cioè produrre «un cambio sistemico dell’ordine internazionale». Xi «vuole rendere la Cina meno dipendente dal mondo e il mondo più dipendente dalla Cina», ha detto al Mercator Institute for China Studies and the European Policy Centre di Bruxelles.
Una dipendenza pericolosa, è questo il punto focale di quell’intervento. La presidente ha citato le materie prime critiche, come litio e cobalto, essenziali alla transizione ecologica e digitale. In questo settore, l’Ue è appesa alla Cina, da cui importa – enumera von der Leyen – il novantotto per cento delle terre rare, il novantatré per cento del magnesio e il novantasette per cento del litio. Eppure, non tutti i governi sembrano aver appreso la lezione. «È come se la crisi energetica e la dipendenza (ora interrotta) dal gas russo non avessero creato consapevolezza sulla nuova dipendenza che si sta creando», ha scritto Carnegie Europe.
La dottrina è «de-risk, non de-couple». Cioè ridurre i rischi, senza arrivare a un disaccoppiamento da Pechino. Per gestire la relazione problematica con la Cina, che dal 2019 è definita «rivale sistemico» dell’Ue, secondo la Commissione serve una risposta collettiva, a cui i Ventisette non devono sottrarsi. Finora gli Stati membri sono andati un po’ in ordine sparso. Sánchez, che pure da luglio erediterà la presidenza di turno dell’Ue, ha riferito «le preoccupazioni» e invitato Xi a parlare con Volodymyr Zelensky solo per rimediarne una Poker face.
Le trasferte, poi, hanno i soliti spin-off di cooperazione economica. È inevitabile sfruttare sino in fondo i bilaterali, ma fare gli interessi di Kyjiv forse consiglierebbe di non mescolare la diplomazia all’affarismo. Nel caso spagnolo, per esempio, si è parlato di facilitare i visti ai turisti cinesi. Macron, invece, è seguito da un codazzo di una cinquantina di imprenditori e dirigenti; alla delegazione partecipano i giganti del nucleare Edf e quello dell’aviazione Airbus. Il presidente aveva già visitato la Cina nel 2019, torna per essere accompagnato da Xi nella metropoli meridionale di Guangzhou.
«Predicare il de-risking mentre si procede con il business-as-usual non è un’opzione – ha scritto su Twitter, il ministro degli Esteri lituano Gabrielius Landsbergis –. Il modello cinese si basa sulla dominazione, non sui negoziati». Con l’invasione russa dell’Ucraina è coinciso il fallimento del meccanismo «17+1», lo schema di cooperazione, affine e propedeutico alla Nuova via della seta, con cui sembrava Pechino potesse penetrare nell’Europa orientale. Tra i lasciti dell’era di Angela Merkel c’è infine il China-Eu Comprehensive Agreement on Investment (Cai).
Non è mai stato ratificato. È naufragato quando l’Ue ha condannato la repressione degli uiguri nello Xinjiang. Avrebbe facilitato la possibilità per le aziende europee di aprire siti di produzione nella Repubblica popolare che, viceversa, avrebbe beneficiato di barriere ridotte in diversi settori. La diplomazia comunitaria, riporta Politico, è tornata a parlarne come possibile leva per la «riconciliazione economica» auspicata da Scholz lo scorso novembre e, con parole diverse, di fatto anche da Sánchez.
I retroscena dicono che Macron vuole scongiurare la «decisione fatale» di armare Putin da parte di Pechino. Un risultato oggettivo sarebbe ottenere da Xi la promessa di una chiamata con il presidente ucraino, quella che si pensava potesse arrivare – ma non è arrivata – dopo il suo viaggio a Mosca. A ogni colloquio il leader comunista ripete che va abbandonata «la mentalità da Guerra fredda». Peccato che lui si prepari a un conflitto, come spiega un lungo e allarmante pezzo su Foreign Affairs.
Presto capiremo quali effetti avrà sortito, se ne avrà sortiti, la visita di Macron e von der Leyen. È un tentativo diplomatico coraggioso, e spericolato, quello di far ragionare la Cina. Potremmo “scoprire” che non ragiona con i nostri schemi. Per esempio, sull’idea di «pace», o di pacificazione.
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