Ci sono tre punti cardine, o più importanti, del nuovo decreto sul lavoro approvato dal governo lunedì: il primo è la revisione del Reddito di cittadinanza, poi c’è una maggiore liberalizzazione dei contratti precari e, infine – e soprattutto – il taglio del cuneo fiscale, cioè la differenza tra il lordo e il netto in busta paga.
A partire da luglio, il taglio ai contributi previdenziali per i redditi sotto i trentacinquemila euro verrà aumentato di quattro punti percentuali. Significa che la riduzione del cuneo fiscale per il 2023 sarà di sei punti percentuali per i redditi da venticinquemila a trentacinquemila euro e di sette punti per quelli sotto i venticinquemila euro. Già a partire da gennaio, infatti, il governo aveva confermato ed esteso gli sgravi previsti dal governo Draghi. Il risparmio medio dovrebbe essere di circa cento euro al mese in totale, con un costo che si aggira intorno ai 4,1 miliardi per il solo intervento da luglio.
La presidente del Consiglio, Giorgia Meloni, lo ha definito il «più importante taglio delle tasse sul lavoro degli ultimi decenni». Mentendo, naturalmente. Sia il taglio delle tasse sul lavoro del governo Draghi, sia il bonus Irpef del governo Renzi, per esempio, hanno impegnato maggiori risorse.
Al di là della gara tra chi ha fatto il taglio più grande, bisogna anche interrogarsi sulle modalità. Innanzitutto, al momento il taglio del cuneo è provvisorio: partirà da luglio e durerà per cinque mesi, forse sei. E poi è stato fatto a debito. Il governo ha rivendicato di aver recuperato un «tesoretto» di quattro miliardi di euro (secondo fonti dell’opposizione sarebbero tre), facendo intendere che si tratti di risorse risparmiate che erano rimaste da parte, magari tagliando qualche spesa o aumentando le tasse. Non è così: le risorse arrivano da uno scostamento di bilancio, ossia da un aumento del deficit e, quindi, del debito.
È vero, quest’anno il deficit è stato più basso del previsto. Anziché mantenerlo a questi livelli, il governo ha preferito aumentarlo di nuovo fino al livello previsto inizialmente, liberando i tre o quattro miliardi che verranno utilizzati. Niente tesoretto, quindi, ma semplicemente nuovo debito.
E i prossimi anni?
Visto anche l’arrivo delle elezioni europee nella primavera dell’anno prossimo, è probabile che il governo deciderà di mantenere questo sgravio almeno per il 2024. Per farlo, però, serviranno oltre dieci miliardi di euro: cinque miliardi, infatti, hanno ridotto in parte il cuneo fin da gennaio, mentre gli altri tre o quattro copriranno questo ulteriore taglio per circa un semestre. Questo significa che per rendere strutturale per il prossimo anno il taglio del costo del lavoro serviranno, a spanne, tra gli undici e i tredici miliardi. Dove recuperarli, per il momento, non si sa.
Per ridurre le tasse, il governo deve per forza affidarsi alla redistribuzione. Ha di fronte due possibilità: aumentare le tasse a qualcuno per abbassarle ad altri, per esempio riducendo l’accesso al regime forfettario (la cosiddetta flat tax per le partite Iva), oppure facendo un trasferimento generazionale delle risorse – in poche parole, sottrarre fondi alle generazioni future attraverso nuovo debito per finanziare le politiche di oggi.
Per il momento, come prevedibile, ha preferito la seconda possibilità, ma non è detto che l’anno prossimo ci sia lo spazio fiscale per aumentare il deficit. La pandemia è ormai superata e, inflazione a parte, le economie stanno tornando verso una nuova normalità. Questo significa che presto tornerà un maggiore controllo da parte dell’Unione europea sui nostri conti. Probabilmente non si tratterà più dei rigidi parametri del Fiscal Compact, ma sarà comunque più complicato prendere a prestito risorse a debito.
Ci sarebbe poi una terza possibilità: maggiore crescita economica, che aiuta a ridurre il rapporto debito/Pil e crea un dividendo di cui beneficiano tutti, anche dal punto di vista dei salari. Questo governo, però, come non pochi prima, ha dimostrato di non avere particolarmente a cuore la crescita, se non tramite fantomatici tagli delle tasse a debito che si ripagherebbero con il maggiore gettito. Lo dimostra la decisione di ignorare totalmente le riforme necessarie a rendere il nostro Paese più competitivo, come quella della concorrenza, o l’incapacità a portare a termine i progetti previsti dal Pnrr.