La notizia del diritto di voto ai cittadini europei che vivono nel Regno Unito è grandemente esagerata. Possono già farlo alle consultazioni locali, come quelle per sindaci e consigli municipali, o per dei Parlamenti «nazionali» se le nazioni in questione sono Scozia e Galles. Ma non per la Camera dei Comuni: almeno, non ancora. Il dibattito, però, è reale. L’ha aperto domenica il Telegraph, attribuendo ai laburisti «un piano» per aumentare i consensi estendendo l’elettorato in una fascia che tradizionalmente simpatizza per loro. Il leader Keir Starmer, futuribile primo ministro, è stato veloce a disinnescare lo “scoop”, però ne ha confermato lo spirito.
Un «piano» che non lo era
Il quotidiano filo-conservatore, di solito ben informato sulle dinamiche della politica britannica, ha sostenuto che nel programma dei laburisti – peraltro, ancora in corso d’elaborazione – ci sarà questa proposta, in caso di vittoria. Abbassare a sedici anni l’età per votare, un punto su cui c’è il favore di Verdi e Libdem, e conferire la stessa possibilità ai cittadini degli Stati membri dell’Unione europea che si siano stabiliti nel Paese. La ragione, secondo le dietrologie del Telegraph rilanciate dai Tores, sarebbe penalizzare gli avversari di sempre.
In particolare, il giornale si è allarmato per una specie di «Gerrymandering» da sinistra. Con questo termine ci si riferisce alla pratica, istituzionalizzata negli Stati Uniti, di ridisegnare la mappa dei collegi per favorire la propria parte (segnatamente il partito repubblicano, che ha cercato di recuperare così l’arretramento demografico della sua base). Nel caso inglese, il tentativo passerebbe da un’espansione del corpo elettorale invece che dalla geografia. Dopo la Brexit, infatti, chi è originario dell’Ue, se non si è naturalizzato, ha dovuto registrarsi.
Hanno ricevuto il «settled status», che consente di restare a pieno diritto nel Regno Unito, 3,4 milioni di cittadini. C’è poi il «pre-settled status», di fatto l’anticamera del primo, assegnato a 2,7 milioni di persone. In totale le domande sono state 6,5 milioni e la terza nazionalità più frequente è proprio quella italiana (617 mila), che segue Romania e Polonia. Sommando queste cifre, i Conservatori hanno gridato all’alterazione degli equilibri politici. In uno scenario del genere, sarebbe impensabile mantenere i (pochi) seggi che ancora detengono nella capitale, tra cui quello dell’ex premier, Boris Johnson, Uxbridge.
Not so fast
Starmer ha subito chiarito. È vero: l’idea risale al 2020, quando l’aveva citata espressamente in un intervento sul Guardian. Ha confermato, in un’intervista radio a Lbc, che gli «sembra sbagliato» non permettere a chi abita lì e ci paga le tasse di incidere sulla composizione di Westminster. Ha però negato esista già una proposta politica in tal senso e, soprattutto, ha ridimensionato le tempistiche. «Il ragionamento è che se qualcuno è stato qui dieci, venti, trent’anni, contribuendo all’economia e alla sua comunità, dovrebbe poter votare».
Dieci, venti, trent’anni. Una durata superiore al requisito del «settled status», avanzato durante la sua campagna per la leadership dei laburisti di tre anni fa. Il criterio sembra piuttosto aver versato tributi, quanto a lungo non è ancora stato nemmeno definito. Anche per questo le speculazioni sulle «manovre» dei progressisti sono una fuga in avanti. A Sky News, il ministro dell’Economia ombra Jonathan Reynolds ha detto che il dibattito sulle riforme non dovrebbe essere inquadrato «con lenti di partito».
Anche sul Times, con gli stessi toni, ha auspicato una partecipazione bipartisan, perché il punto è «rafforzare la democrazia» e non ottenere vantaggi unilaterali. Il portavoce del «the3million group», una campagna animata dagli europei nel Paese, ha invece apprezzato la suggestione, anche perché «il percorso verso la cittadinanza è uno dei più cari al mondo e non tutti se lo possono permettere». Il presidente del Partito conservatore, Greg Hands, ne ha fatto invece un discorso identitario: quel diritto «è giustamente limitato ai britannici e a chi ha storici legami storici con la nostra nazione».
Fine di un ciclo
Di fronte agli avversari staccati nei sondaggi, come ha scritto Andrew Marr sul New Statesman, il vero problema per Starmer e il suo inner circle sembra capire cosa potrebbe andare storto da qui alle urne. Manca ancora parecchio: si tornerà a votare tra il tardo autunno del 2024 e, al massimo, il 28 gennaio 2025. Il premier Rishi Sunak ha cercato di costruirsi una reputazione da problem solver, ma alle consultazioni locali di due settimane fa i suoi Tories hanno perso più di mille consiglieri. I laburisti, invece, che nel 2019 avevano patito la peggior sconfitta dal 1935, hanno sfondato come non gli riusciva da vent’anni, dall’epoca di Tony Blair.
Middlesbrough, Stoke-on-Trent, Hartlepool, Dover, Thanet, Swindon, Brighton&Hove. La topografia delle conquiste, o delle loro avanzate, autorizza ottimismo. Se ai tempi di Blair gli elettori erano soprattutto quelli «abituali», fedeli, oggi i flussi sono più fluidi. Pare disinnescata la trappola di questa specie di teoria del complotto sul voto agli europei come antefatto di un referendum per invertire la Brexit. Sulla strada per Downing Street, però, altre ne potrebbero venire – magari con la compiacenza dei media e dei soliti tabloid.
Altri parallelismi storici: nel 1992, dopo quattro vittorie consecutive, i Tories entrarono in una fase di crisi profonda. Dal 2016 a oggi il partito ha espresso cinque primi ministri, tre solo nel 2022. Dopo David Cameron, nessuno dei suoi successori è riuscito a risolvere il problema di «come riconciliare la democrazia plebiscitaria con quella rappresentativa». Il partito cantore della Brexit ha finito per associare se stesso, e il suo brand, a un fallimento di cui limitare i danni. Per questo, non escluderà i colpi bassi per provare a sabotare un ricambio fisiologico in un sistema bipolare come quello inglese.