Per fare un Re non serve un’incoronazione. Carlo lo è diventato nell’istante in cui è morta sua madre, Elisabetta. La scomparsa di colei che incarnava un’istituzione fuori dal tempo, al punto da sembrare esente agli anni lei stessa, ha aperto una nuova fase per la monarchia inglese: sopravviverle. Oggi a Londra va in scena un rituale, la continuità variopinta della dinastia, tra fanfare e uniformi da parata. Ma un pezzo del Regno, che si dice sempre meno marginale, non festeggerà. I repubblicani vedono in quella sfilata soprattutto uno sperpero di denaro pubblico, le stime vanno dai cento ai duecentocinquanta milioni di sterline.
I sovrani non sono come le olimpiadi: un funerale, una Coronation sono eventi rari. Possiamo attribuire un metallo pregiato ai «giubilei», ma i momenti topici sono quelli, con in mezzo i matrimoni. La Gran Bretagna non è più quella del 1953, che incoronò Elisabetta II appena ventisettenne. Carlo, a settantaquattro anni, è il più anziano a salire al trono. Anche se è ancora il capo di Stato onorario di quattordici nazioni, non ha più un impero e il Commonwealth non se la passa benissimo. Dopo le Barbados nel 2021, anche la Jamaica vorrebbe diventare una repubblica (e quindi detronizzarlo).
Non sono solo le ex colonie ad avere aspirazioni “regicide”, nella madrepatria esiste una campagna per l’abolizione della monarchia. Si chiama Republic. Oggi i suoi simpatizzanti manifestano a Trafalgar Square. «Il nostro messaggio è che vogliamo un’elezione invece di un’incoronazione e una scelta invece di un bambino», spiega a Linkiesta Graham Smith, ceo di Republic. L’ultima parte in inglese suona meglio: «a choice instead of a child». Dopo la scomparsa di Elisabetta, racconta, le cose sono cambiate. «La Regina era la monarchia per un sacco di gente, Carlo non ci riuscirà mai».
Le uscite pubbliche del Re sono punteggiate da cartelli gialli. Sopra c’è scritto «Not my king», la stessa formula degli hashtag con cui viene contestato sui social. Anche sua madre, in settant’anni di onorato servizio, ha incontrato episodi di dissenso, durante un viaggio in Nuova Zelanda del 1986 per esempio le hanno tirato le uova, ma erano sporadici. L’eccezione, non la norma. Carlo, e questa è una differenza notata dai media internazionali, è accompagnato dai picchetti silenziosi. Il movimento repubblicano, che ha anche una declinazione laburista chiamata Labour for a Republic, conferma un nuovo impulso.
In ogni cultura le cerimonie hanno un significato, ha spiegato l’antropologo Dimitris Xygalatas sulla Bbc. La loro assenza, anzi, può diminuire la portata di un traguardo – è quanto, secondo le interviste, hanno sperimentato gli studenti che si sono dovuti laureare a distanza a causa della pandemia. Certo, il ritorno a Buckingham Palace su una diligenza talmente carica d’oro da dover essere trasportata da otto cavalli non pare nella direzione di quella «modernizzazione» spesso attribuita a Carlo. Ricorda invece «lo spettacolo di un miliardario ereditario diretto, su una carrozza d’oro massiccio, a un’abbazia, dove una corona tempestata di diamanti verrà piazzata sulla sua testa nel mezzo di una crisi per il carovita» di cui ha scritto Otto English su Politico.
«Non si può modernizzare la monarchia. Voglio dire, anche per l’incoronazione, stanno rilanciando sugli aspetti più arcaici della cerimonia», spiega Smith. Dai paramenti appartenuti ai predecessori alla processione multietnica per consegnare regalie al «difensore di fede», formula più neutra e, sulla carta, inclusiva di quella che riconosceva solo il credo anglicano. «È un relitto del passato, dobbiamo entrare nel ventunesimo secolo», anche per Ken Ritchie, portavoce di Labour for a Republic. Eppure Carlo, almeno all’estero, ha fama di ambientalista e innovatore, fin da quando era principe di Galles.
«In realtà, non ha mai risposto agli ambientalisti che gli chiedevano la rinaturalizzazione, piantando alberi, delle sue vaste proprietà che sono state ripulite dalla vegetazione per fare spazio alla caccia ai fagiani – obietta Ritchie –. È stato criticato per essere andato a bordo di un elicottero a parlare della necessità di ridurre le emissioni». Anche per Smith, sul cambiamento climatico la famiglia reale «è ipocrita. William e Carlo hanno impronte di carbonio immense, ma fingono di stare al gioco e sembrare interessati e solidali, senza poi agire concretamente».
Oltre a quello, più macroscopico, del cerimoniale, c’è un secondo livello che evoca il colonialismo. «Un ordinamento economico e politico di estrema inuguaglianza che ora si è ritorto contro la Gran Bretagna stessa», commenta Priyamvada Gopal dell’università di Cambridge su Al Jazeera. Così ora Londra somiglia alle sue vecchie dominazioni: economia stagnante, polizia violenta, disordini e proteste. Un Paese che spende centinaia di milioni per la Coronation mentre nega un aumento della paga a infermieri, insegnanti e lavoratori pubblici. La comunità australiana si è unita all’appello dei leader indigeni del Commonwealth perché il Re si scusi formalmente per il passato coloniale.
Ricordiamo tutti la Megxit, con annesso dibattito e paginate web sul razzismo in seno al casato Windsor. «Ma anche se era contro la legge, fino agli anni Settanta, era una policy della famiglia reale non dare lavoro a chi non fosse bianco. Non è più così, ma resta un’esenzione al British Equalities Act, che consente di fare ricorsi legali a chi si sente discriminato sulla base dell’etnia, la religione o l’orientamento sessuale», aggiunge il portavoce di Labour for a Republic. Con un patrimonio stimato di 1,8 miliardi di sterline, continua Ritchie, forse sarebbe il caso di considerare delle «serie riparazioni» per chi ha patito la schiavitù sotto la Corona.
La Coronation è meno sentita in Scozia e in Galles. Se la linea dello Scottish national party, per anni, è stata un’indipendenza senza ripudiare Elisabetta come sovrana, il nuovo leader, nonché primo ministro, Humza Yousaf si professa repubblicano, come il suo collega di Cardiff, Mark Drakeford. Entrambi, oggi, saranno a Westminster in quanto ufficiali pubblici, per rappresentare i loro cittadini. Non ci andranno, invece, i Verdi scozzesi, che pure avevano tributato l’addio alla Regina. «Ho detto che dovevo lavarmi i capelli», ha scherzato in un comizio il loro co-leader, dalla testa rasata. «Non penso sia la monarchia a tenere insieme l’Unione, è già divisa», riflette Smith.
Se metà degli inglesi, nei sondaggi di YouGov, ritiene che la famiglia reale svolga un ruolo «meno importante» del passato, percentuali simili ritengono la monarchia positiva per il Paese e solo un terzo degli intervistati vorrebbe un referendum a riguardo. Labour for a Republic ne è consapevole, per questo fa campagna per una riforma dell’istituzione e affinché la discussione sia introiettata nel dibattito pubblico. Republic ritiene invece che il tema attraversi lo spettro politico e se ne parlerà in Parlamento non appena il sostegno per la monarchia scenderà sotto il cinquanta per cento.
Una rilevazione commissionata dal network Itv lo colloca già al cinquantadue per cento. Per questo Smith tiene a sottolineare che le immagini di oggi «non rappresentano la maggioranza dei britannici». Ma il differenziale più forte ricalca l’età: i più affezionati all’istituzione sono gli over-65. Questa «older generation», conclude Ritchie, non ha combattuto la guerra ma è cresciuta al suo indomani e vive ancora nella delusione che in un certo senso la monarchia perpetua». Che la Bretagna è Grande, era il centro di un impero e «le mappe che hanno studiato a scuola erano piene di nazioni ombreggiate di rosa perché ne facevano parte. Hanno finito per associare alla monarchia questo sentimento storico di essere britannici».